Preghiera per i martiri delle foibe
10 Febbraio 2009 Foibe, dalla Tragedia all’Esodo
O Dio, Signore della vita e della morte, della luce e delle tenebre, dalla profondità di questa terra e di questo nostro dolore noi gridiamo a Te. Ascolta, o Signore, la nostra voce. Noi siamo venuti qui per innalzare le nostre povere preghiere e deporre i nostri fiori, ma anche per apprendere l’insegnamento che sale dal sacrificio di questi Morti. E ci rivolgiamo a Te, perché Tu hai raccolto l’ultimo loro grido, l’ultimo loro respiro.
Questo calvario, col vertice sprofondato nelle viscere della terra, costituisce una grande cattedra, che indica nella giustizia e nell’amore le vie della pace. Ebbene, Signore, Principe della Pace, concedi a noi la Tua pace. Dona conforto alle spose, alle madri, alle sorelle, ai figli di coloro che si trovano in tutte le foibe di questa nostra triste terra, e a tutti noi che siamo vivi e sentiamo pesare ogni giorno sul cuore la pena per questi Morti, profonda come le voragini che li accolgono.
Tu sei il Vivente, o Signore, e in Te essi vivono. Che se ancora la loro purificazione non è perfetta, noi Ti offriamo, o Dio Santo e Giusto, la nostra preghiera, la nostra angoscia, i nostri sacrifici, perché giungano presto a gioire dello splendore del Tuo Volto.
E a noi dona rassegnazione e fortezza, saggezza e bontà. Tu ci hai detto: “Beati i misericordiosi perché saranno chiamati figli di Dio, beati coloro che piangono perché saranno consolati”, ma anche beati quelli che hanno fame e sete di giustizia perché saranno saziati in Te, o Signore, perché è sempre apparente e transeunte il trionfo dell’iniquità.
+ Mons. Antonio Santin Vescovo di Trieste (1959)
Mostra al Complesso del Vittoriano a Roma
Non dimenticare le tante vittime delle foibe. E’ questo lo scopo della mostra “Foibe: dalla Tragedia all’Esodo” organizzata dall’Associazione Nazionale Dalmata presso il Complesso del Vittoriano, fino al 22 febbraio. L’iniziativa si pone come obiettivo il racconto delle storie di quelle migliaia di italiani, vittime di un progetto di pulizia etnica, portato avanti dalla dittatura instauratasi in Yugoslavia durante la Seconda guerra mondiale. Il percorso espositivo è distribuito in due grandi aree tematiche: una dedicata alle Foibe ed una all’Esodo. Una raccolta di circa 100 foto racconta i luoghi e i personaggi della tragedia, i documenti sulla vita quotidiana di quegli anni, i giornali dell’epoca. Oltre all’esposizione fotografica una sala cinema dove vengono proiettati documentari.
La preghiera è saggiamente aperta ad ogni situazione in cui l’umanità viene relegata a nulla. Auguro a tutti che non venga strumentalizzata in senso politico ed ideologico, come accade spesso. Facciamo attenzione a non dare importanza particolare ad una tragedia piuttosto che ad un’altra. Gli Scout, cristiani e non, sono chiamati a costruire ponti di comunione e condivisione e non a camminamenti di guerra, utili solo per attaccare o difendere una posizione.
Quello che è accaduto durante la Seconda Guerra Mondiale è conseguenza della guerra e del suo seguito di disumanità. Hanno sbagliato i comunisti di Tito, ma anche i fascisti di Mussolini. Hanno pagato anche coloro che non stavano da nessuna delle due parti.
Non ci dovrebbero essere morti di serie A e morti di serie B. Come scout dobbiamo o abbiamo il dovere di ricordarli. Bisogna diffondere maggiormente questa Giornata del Ricordo.
ACQUI TERME (AL) Via Martiri delle Foibe
ALBIGNASEGO (PD) Via Martiri delle Foibe
ANTRODOCO (Rieti) Giardino “Martiri delle Foibe”
AREZZO Largo Martiri delle foibe
ARONA (NO) Largo Martiri delle foibe
ASSISI (Perugia) Via Martiri delle Foibe
AVEZZANO (L’AQUILA) Via Martiri delle Foibe
BANCINA (Palermo) Via Martiri delle Foibe
BARI Via Martiri delle Foibe
BELLUNO Piazzale Vittime delle foibe
BENEVENTO Piazzale Martiri delle foibe
BRESCIA Via Foiba di Basovizza
BRINDISI Via Martiri delle Foibe
BUSSOLENGO (VR) Via Martiri delle Foibe
CAGLIARI Parco Martiri delle Foibe
CALOLZIOCORTE (Lecco) Parco Martiri delle Foibe
CASALE MONFERRATO (Alessandria) Via Vittime delle Foibe
CASPERIA (Rieti) Via Martiri delle Foibe
CASTELLABATE (Sa) Via Martiri delle Foibe
CASTELLABATE (Sa) Via Norma Cossetto
CASTELNUOVO DEL GARDA (Vr) Via Martiri delle Foibe
CEGLIE MASSAPICA (BR) Via Martiri delle Foibe
CERIGNOLA
CERVETERI (Roma) Via Martiri delle Foibe
CHIUPPANO (VI) Via Martiri delle Foibe
CIVITANOVA MARCHE (MC) Via Martiri delle Foibe
CIVITAVECCHIA Parco Uliveto intitolato ai Martiri delle Foibe
CIVITAVECCHIA (Roma) Targa ai Martiri delle Foibe
COMO Giardini Martiri delle Foibe istriane
CONEGLIANO VENETO (TV) Via Martiri delle Foibe
CORTEMAGGIORE (Piacenza) Via Martiri delle Foibe
CRESCENTINO (Vc) Via Martiri Delle Foibe
DESENZANO DEL GARDA (BS) Via Martiri delle Foibe
FERMO (AP) Viale Martiri delle Foibe
FIRENZE Via Martiri delle Foibe
FONDI (LT) Piazza Martiri delle Foibe
FORLI’ Viale Martiri delle Foibe
GRADO (Gorizia) Piazza Martiri delle Foibe
GROSSETO Piazza Martiri delle Foibe istriane
GUIDONIA MONTECELIO (Roma) Piazza Martiri delle Foibe
JESOLO (VE) Via Martiri delle Foibe
LANCIANO (Chieti) Piazza Martiri delle Foibe
LECCO Riva Martiri delle foibe
LEONESSA (Rieti) Largo dei Martiri delle Foibe Istriane
LIMBIATE (Milano) Piazza Martiri delle Foibe
LOANO (SV) Via Martiri delle Foibe
MAIOLATI SPONTINI (AN) Largo Martiri delle foibe
MARINA DI PISA Via Martiri delle Foibe
MILANO Largo Martiri delle foibe
MODENA Via Martiri delle Foibe
MONTEBELLUNA Piazzale Vittime delle foibe
MONTEROTONDO Piazza Martiri delle Foibe
NOVENTA VICENTINA (Vicenza) Via Vittime delle Foibe
ONARA DI TOMBOLO (PN) Via Martiri delle Foibe
ORISTANO Via Martiri delle Foibe
PAGNACCO (UD) Piazzale Martiri delle Foibe
PALERMO Via Foibe
PISA Via Martiri delle Foibe
PISTOIA Via Martiri delle Foibe
PORTOMAGGIORE (FE) Via Martiri delle Foibe
PRATO Via Martiri delle Foibe
RECANATI (Macerata) Via Martiri delle Foibe
RIVA DEL GARDA (Trento) Largo Caduti delle Foibe
RIVAROLO CANAVESE (Torino) Via Vittime delle Foibe
ROBECCO SUL NAVIGLIO Via Martiri delle Foibe
ROCCA DI BERGAMO Via Martiri delle Foibe
ROMA Largo delle Vittime delle Foibe istriane
RONCHI DEI LEGIONARI (GO) Via Martiri delle Foibe
ROVERETO (TN) Piazza Vittime delle Foibe
SALO’ (Brescia): Galleria Martiri delle Foibe
SALO’ (Brescia): Via Martiri delle Foibe
SAN LAZZARO DI SAVENA (BO) Via Martiri delle Foibe
SAN PIETRO DI LAVAGNO (VR) Via Martiri delle Foibe
SAN SEVERO (FG) Largo Vittime delle Foibe
SANREMOSanremo (Imperia) Via Martiri delle Foibe
SCAFATI (SA) Via Martiri delle Foibe
SERVIGLIANO (Ascoli Piceno) Via Martiri delle Foibe
SETTIMO TORINESE (TO) Via Martiri delle Foibe
SIMERI CRICHI (Catanzaro) Piazza Vittime delle Foibe
TERAMO Via Martiri delle Foibe
TERMOLI (CB) Largo Martiri delle foibe
TRENTO Via Vittime delle Foibe
TRIESTE Monumento dedicato ai Martiri delle Foibe
TRIESTE Via Largo don Francesco Bonifacio
TRIESTE Via Norma Cossetto
VENTIMIGLIA (Imperia) Via Martiri delle Foibe
VICENZA Via Martiri delle Foibe
VIGEVANO (PV) Via Martiri delle Foibe
VILLAFRANCA LUNIGIANA (Massa-Carrara) Piazza Vittime delle Foibe
VITERBO Largo Martiri delle Foibe istriane
VITTORIA Via Martiri delle Foibe
VOGHERA (PV) Via Martiri delle Foibe
VOLPIANO (TO) Via Vittime delle Foibe
Foibe: tombe senza nomi e senza fiori, dove regna il silenzio dei morti e il silenzio dei vivi
STRAGE DI VERGAROLLA – 18 AGOSTO 1946
La pulizia etnica voluta da Tito a danno degli italiani, ed ammessa senza mezzi termini dai suoi massimi luogotenenti quali Gilas e Kardelj, ebbe il momento di punta negli eccidi delle foibe, proseguiti a lungo, anche dopo la guerra, in spregio al diritto positivo, e prima ancora, a quello naturale.
Un episodio di particolare e tragica efferatezza, che conviene proporre al ricordo di tutti, fu la strage di Vergarolla, compiuta nei pressi di Pola il 18 agosto 1946, sedici mesi dopo la fine del conflitto: in una giornata di festa, elementi dell’OZNA, la polizia politica jugoslava, fecero brillare 28 mine di profondità (contenenti esplosivo per circa dieci tonnellate) che erano state depositate sulla spiaggia, provocando un centinaio di Vittime.
Fu un atto intimidatorio per costringere la popolazione italiana ad abbandonare Pola, con un esodo in massa che coinvolse il 92 per cento degli abitanti. Ufficialmente, la paternità della strage rimase ignota per molti anni, anche se tutti sapevano quale ne fosse la matrice, ma in tempi recenti l’apertura degli archivi inglesi di Kew Gardens (Foreign Office) ha permesso di mettere in chiaro la verità, con i nomi degli esecutori materiali.
Vergarolla fu un atto proditorio e vile, compiuto a danno di una popolazione inerme, richiamata anche da una manifestazione sportiva, e costituita in buona misura da bambini, donne ed alcune persone anziane: le 64 Vittime identificate avevano un’età media di 26 anni. Per molti altri, fu impossibile ricomporre i poveri resti, letteralmente disintegrati dall’esplosione.
Ecco i Nomi delle Vittime conosciute (per ciascuna, con indicazione dell’età): quelli contrassegnati dall’asterisco si riferiscono a coloro che vennero sepolti in una tomba comune eretta nel Cimitero di Monte Giro a cura di Vittorio Saccon, un cittadino di Pola che nell’eccidio aveva perduto un numero assai elevato di familiari.
BALDUCCI Leambruno 25
BERDINI Amalia 34
*** BERDINI Emilio 36
BERDINI Luciana 5
BERDINI Ornella 32
BRANDIS Alberto 3
BRANDIS Ferruccio 34
BRANDIS Ida 31
BRESSAN Gigliana 23
BRESSAN Salvatore 27
BRONZIN Francesca 41
CHERPAN Paolo 24
*** DEBONI (Lussi) Maria 37
*** DINELLI (HEGEDICH) (Mamma) Amalia 36
*** DINELLI (Nonna) Giovanna 60
*** DINELLI (Papa’) Olao 37
*** DINELLI (Sorella) Norina 6
DINELLI (Zio e fratello di Olao) Otello 24
*** GIURINA Nadia 11
*** LUCHEZ Rosina 19
*** MARAN Valeria 50
MARCHI Silvana 5
*** MARCHI (Deboni) Caterina 31
*** MARESI Franco 8
*** MARESI Graziella 5
*** MARESI (Gilve) Jolanda 28
*** MARESI Milena 3
*** MARINI Liliana 23
MARTIN Argia 42
MARTIN Nicolò 20
*** MICHELETTI Alberto 37
MICHELETTI Carlo 9
*** MICHELETTI Enzo 4
*** MICHELETTI (Maresi) Caterina 37
MINGARONI Palmira 50
MINGARONI Riccardo 49
MUGGIA Vitaliano 10
NICCOLI Marialuisa 12
NOVAK (in Toniolo) Maria 48
QUARANTOTTO Anita 37
RICATO Aurelio 10
ROCCO Camilla 30
ROCCO Gianna 5
ROCCO Licia 8
ROCCO Mario 36
ROICI Ginanfranco 12
ROICI Lucio 15
*** RUPILLO (Crosilla) Adelina 24
SABATTI Francesco
*** SACCON Fulvio 3
*** SACCON Riccardo 50
*** SACCON Trifone 42
*** SACCON (Contus in Saccon) Emma 50
*** SACCON (Faraguna in Saccon) Stefania 31
SPONZA Alberto 55
SUCCI Carlo 6
TONIOLO Francesco 45
VICCHI Vilma 23
VIDOVICH (ved. Mingaroni) Giovanna 72
VIVODA Sergio 8
*** VOLCHIERI Alfredo 28
*** VOLCHIERI Jolanda 34
ZAVERSNICH Francesco 30
ZELESCO Edmondo 6
Dalla strage di Vergarolla, come dal genocidio programmato a danno degli italiani di Venezia Giulia e Dalmazia, sono passati oltre 60 anni: tanti, ma non troppi per coloro che piangono i propri Caduti, e per i pochi superstiti che ricordano con raccapriccio quella tragedia agghiacciante, e la perversità delle sue motivazioni.
Qui, si vuole soltanto rammentare il clima di terrore che si diffuse a Pola, e l’indignazione del Consiglio comunale che inoltrò un’immediata e vibrante protesta al Comando Supremo Alleato del Mediterraneo ed a quelli locali, senza alcun apprezzabile seguito: la Corte d’inchiesta non pervenne, o non volle pervenire, a risultati probanti. Anzi, a breve distanza da Vergarolla giunse notizia che anche Pola, diversamente da quanto era stato ipotizzato, sarebbe stata ceduta alla Jugoslavia.
Di qui, l’esodo plebiscitario compiuto entro i primi mesi del 1947 da parte di un popolo che aveva una grande colpa, quella di essere italiano; ma che nonostante il dolore seppe affermare con grande dignità e coraggio i valori etici di civiltà e giustizia, e quello di un esemplare amore patrio.
Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano (Ap)
ROMA – Il dramma del popolo giuliano-dalmata fu scatenato «da un moto di odio e furia sanguinaria e un disegno annessionistico slavo che prevalse innanzitutto nel trattato di pace del 1947, e che assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica». Lo ha detto il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, intervenendo nel Giorno del ricordo delle vittime delle foibe, le cavità carsiche nelle quali, tra il 1943 e il 1945, vennero fatti sparire migliaia di oppositori al regime di Tito (? la scheda). «Non dobbiamo tacere – ha aggiunto il presidente, che al Quirinale ha incontrato gli eredi delle vittime -, assumendoci la responsabilità di aver negato o teso ad ignorare la verità per pregiudiziali ideologiche e cecità politica» il dramma del popolo giuliano-dalmata. Una tragedia, ha spiegato, «rimossa per calcoli dilomatici e convenienze internazionali».
«BASTA SILENZI» – «Oggi che in Italia abbiamo posto fine ad un non giustificabile silenzio, e che siamo impegnati in Europa a riconoscere nella Slovenia un’amichevole partner e nella Croazia un nuovo candidato all’ingresso nell’Unione – ha sottolineato il capo dello Stato -, dobbiamo tuttavia ripetere con forza che dovunque, in seno al popolo italiano come nei rapporti tra i popoli, parte della riconciliazione, che fermamente vogliano, è la verità. È quello del Giorno del Ricordo è precisamente un solenne impegno di ristabilimento della verità».
L’EREDITA’ DI CIAMPI – Napolitano ha voluto richiamarsi esplicitamente al suo predecessore, Carlo Azeglio Ciampi, dicendo che ne raccoglie l’esempio circa «il dovere che le istituzioni della Repubblica sentono come proprio, a tutti i livelli, di un riconoscimento troppo a lungo mancato». Nell’ autunno 1943, ha spiegato Napolitano citando recenti riflessioni e ricerche, «si intrecciarono giustizialismo sommario e tumultuoso, parossismo nazionalista, rivalse sociali e un disegno di sradicamento della presenza italiana da quella che era e cessò di essere la Venezia Giulia».
LA «NUOVA EUROPA» – «La disumana ferocia delle foibe – ha detto ancora – fu una delle barbarie del secolo scorso, in cui si intrecciarono in Europa cultura e barbarie. Non bisogna mai smarrire consapevolezza di ciò – ha sottolineato – nel valorizzare i tratti più nobili della nostra tradizione storica e nel consolidare i lineamenti di civiltà, di pace, di libertà, di tolleranza, di solidarietà della nuova Europa che stiamo costruendo da oltre 50 anni, e che è nata dal rifiuto dei nazionalismi aggressivi e oppressivi, da quello espresso nella guerra fascista a quello espresso nell’ ondata di terrore jugoslavo in Venezia Giulia. La nuova Europa esclude naturalmente anche ogni revanchismo».
11 febbraio 2007
Risposta a Francesco Margarone
………………….Hanno sbagliato i comunisti di Tito, ma anche i fascisti di Mussolini.
“Hanno pagato anche coloro che non stavano da nessuna delle due parti”
Risposta:
A N C H E E S O P R A T T U T T O
Di fronte al “mistero dell’iniquità” non bisogna rinunciare a progettare il BENE.
ho la consapevolezza che gli esuli con le loro scelte e la loro vita hanno saputo farlo.
ne ho conosciuti alcuni della caserma Perrone oggi sede universitaria di Novara.
Con la cessione di Istria, Fiume e Dalmazia alla Jugoslavia, qualora gli italiani fossero rimasti a casa, sarebbero stati costretti a sacrificare radici culturali, storia, e la stessa vita.
Unica soluzione: l’esodo plebiscitario, garanzia di salvezza fisica e di una pur difficile, sofferta salvaguardia di identità e tradizioni.
Come nella metafora di Ecuba, giuliani e dalmati “non sono scappati: furono cacciati”. Hanno perduto tutto, ma non il cuore italiano.
GIOVEDÌ, 24 DICEMBRE 2009
Pagina 1 – Prima Pagina
Beni abbandonati, un milione di risarcimento
Il tribunale di Venezia dà ragione a una famiglia di esuli di Sebenico. Roma deve pagare
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lDe Rossi, Manzin e Unterweger a pagina 12
TRIESTE Poco meno di un milione di euro: è quanto lo Stato italiano dovrà versare a una famiglia originaria di Sebenico a titolo di risarcimento per i beni abbandonati nell’ex Jugoslavia al termine della Seconda guerra mondiale. La sentenza arriva, dopo una lunga battaglia giudiziaria, dal tribunale civile di Venezia, a cui si sono rivolti appartenenti ed eredi della famiglia Castriota Scanderberg. I Castriota Scanderberg possedevano palazzi e terreni in quella che ora è terra croata. L’Italia aveva già versato alla famiglia alcune somme a ristoro del danno, denaro ritenuto del tutto insufficiente a coprire il reale valore dei beni abbandonati. «Questa sentenza – dice l’avvocato – costituisce un importante precedente anche per gli altri esuli».
Giustizia per la scuola
Il tuo commento è in attesa di moderazione
IL MINISTRO GELMINI DEVE PRENDERE PROVVEDIMENTI NEI CONFRONTI DEL PRESIDE E DEI PROFESSORI DELL’ISTITUTO NAUTICO CABOTO DI GAETA CHE HANNO VIOLATO LA LIBERTA’ DI INSEGNAMENTO E DI APPRENDIMENTO, E CON ESSA LA COSTITUZIONE ITALIANA, LA LEGGE 30 MARZO 2004 E RIPETUTE CIRCOLARI MINISTERIALI.
ECCO I FATTI:
AFFIGGE VOLANTINI SULLE FOIBE E PRENDE UNA NOTA A SCUOLA, POLEMICHE A GAETA
Mercoledì 11 Febbraio 2009 19:05
Nota sul registro e convocazione dal preside per uno studente dell’Istituto Nautico «G.Caboto» di Gaeta “sorpreso” questa mattina ad affiggere dei volantini sulle foibe. A riferire l’episodio è Mauro Pecchia, responsabile del Blocco studentesco di Gaeta, che racconta: «Questa mattina un attivista del Blocco Studentesco, nonchè Rappresentante alla Consulta provinciale di Latina, è stato ripreso da alcuni professori e convocato dal Preside per aver affisso dei volantini che commemoravano le decine di migliaia di martiri infoibati italiani, più le centinaia di migliaia costrette ad un vergognoso esodo forzata, in occasione della ‘Giornata del ricordò istituita da circa quattro anni dallo Stato Italiano».
«Il militante blocchista – prosegue Pecchia – è stato ammonito con un rapporto sul registro di classe, per poi essere minacciato di ricevere un cinque in condotta alla fine dell’anno, che significherebbe la certa non ammissione all’anno successivo. Dopo cinquant’anni di bugie, invenzioni ed intimidazioni ancora oggi continua la repressione del pensiero nei confronti di chi vuole soltanto verità. Continua l’opera di negazionismo militante nelle scuole e nelle università in merito alla tragedia delle foibe». «Non abbiamo intenzione di restare a guardare la prepotenza selvaggia di una determinata area politica che continua a giustificare l’eccidio comunista nei confronti di migliaia di compatrioti indifesi, nè la giustificazione che queste stesse persone continuano a dare ad una delle pagine più vergognose della storia del nostro Paese – conclude Pecchia – Vogliamo che il preside chieda pubblicamente scusa al nostro movimento e a tutte le vittime infoibate, e ritiri la punizione inflitta al nostro militante. È un atto di giustizia nei confronti di tutti quelli che hanno sofferto la crudeltà comunista, prima, e il silenzio della storia distorta, poi».
Foibe, la memoria cancellata nei libri di scuola
di Cristiano Gatti
Lo dice la parola stessa: è il giorno del ricordo. Sarebbe umano e giusto ricordare anche questo: migliaia di anonimi italiani, sgraditi ai disegni di
Tito, buttati nell’abisso delle grotte carsiche, chiamate foibe. Tutto in poche settimane, dal primo maggio a metà giugno 1945. Italiani dissolti nel
nulla. Spariti dall’anagrafe, spariti dalla storia.
Proprio così, è sempre importante ricordare: perché le nuove generazioni sappiano, perché non ci sia più nessuno che si lasci tentare nuovamente da strane idee. Il problema sorge quando la memoria difetta a chi la memoria dovrebbe custodire e magari stimolare. Agli storici. È un problema in cui mi sono imbattuto in questi giorni, quando mio figlio di tredici anni mi ha chiesto qualcosa sull’argomento. Come faccio sempre, mi sono limitato a un’esposizione sommaria: cosa sono le foibe, dove sono, che cosa è successo,
salvo invitarlo subito a precisare meglio sul suo libro di storia.
Mio figlio frequenta la terza media di una scuola statale piuttosto seria.
Ha libri di testo ritenuti ugualmente seri. L’altro pomeriggio mi si è ripresentato davanti con il libro di storia. Papà, mi ha detto sfogliando, qui non c’è niente delle foibe. Come, niente. Mi è sembrato impossibile. Non c’era nulla sui testi della mia epoca, trenta o quarant’anni fa, e so pure
perché. Ma ormai delle foibe si è ricominciato a parlare da diversi anni, anche le edizioni più lente e più pigre hanno avuto tutto il tempo per colmare il vuoto. Lo confesso: ho subito dubitato di mio figlio. Non hai visto, siete troppo superficiali, non avete metodo nello studio: le solite paternali che partono in automatico dai pulpiti adulti. Lui, con garbo, mi
ha passato il libro: prova tu, cerca.
Non facciamola troppo lunga: sul libro le foibe non compaiono. Sparite nel nulla, come i cadaveri che hanno risucchiato sessant’anni fa.
Vogliamo parlare di dimenticanza? Per favore, non scherziamo. Se di semplice distrazione si trattasse, sarebbe pure peggio. Gli autori di questo libro –
prodotto da un editore come Bruno Mondadori, non da un cioccolataio qualunque – sono addirittura tre. Non voglio neanche pensare che soffrano tutti e tre di amnesie: sarebbe tremendo, anzi diciamo pure un po’
grottesco, per gente che campa sulla memoria.
Che cosa, allora? Perché, allora? Se sulle stesse pagine è già possibile trovare le prime ricostruzioni e le prime spiegazioni dell’11 settembre, della mondializzazione e del trattato di Maastricht, non posso certamente concludere che agli autori sia mancato il tempo per aggiornare il lavoro.
Guardando le diciture di retrocopertina, il volume risulta chiuso nel 2005.
Cioè in un’epoca comunque segnata dal dibattito sulle foibe. I tre autori possono essere anche corti di memoria, ma non credo siano pure tutti e tre sordi.
È persino inutile aggiungere che ulteriori ricerche su altri volumi hanno dato analoghi, avvilenti risultati. Difficilissimo trovare le foibe sui testi delle nostre scuole. Pittoresco: vorremmo che le future generazioni
non dimenticassero un avvenimento che neppure trovano sui libri di storia.
Ovviamente non è la prima volta che si discute su certe stranissime lacune, su certe omissioni sospette, su certi buchi neri dei nostri testi scolastici. Come ha scritto il vecchio Tolstoj, la storia la scrivono sempre i vincitori. Purtroppo, è risaputo: certi storici e certe case editrici temono di inserire certi argomenti nei loro libri, perché questo può
comportare l’ostracismo di tanti professori che scelgono il testo. Nella scuola italiana è facile trovare libri o dispense che parlino della pena di
morte negli Stati Uniti. È difficile però trovarne che parlino delle 25mila esecuzioni negli ultimi anni in Cina. Non sono amnesie: sono scelte. Di opportunismo.
Almeno sulle foibe sarebbe però il caso di piantarla, con i pudori e le reticenze. Quale Italia andiamo a costruire, se ancora portiamo nelle nostre aule questi tabù culturali, questi pregiudizi ideologici, queste censure
preventive e conformiste? La grandezza di una scuola si misura dalla sua capacità di aprirsi, di sbarazzarsi degli opportunismi e delle convenienze,
di puntare ad una reale onestà intellettuale. Se cominciamo proprio lì a strumentalizzare, a occultare e a mistificare, come possiamo sperare che gli
italiani di domani siano un po’ migliori di noi, irrimediabilmente piagati da troppe stagioni di faziosità e di ideologia? Avanti con questo metodo,
che considera Stalin un po’ più amabile di Hitler, che ritiene i fumi della Cina un po’ più profumati di quelli americani, che dimentica – ops – quei
tre, cinque, diecimila italiani buttati mezzi vivi nelle foibe, non usciremo mai dalla meschinità dei nostri orizzonti culturali. Poi non stupiamoci se
un intellettuale onesto come Giampaolo Pansa dove farsi scortare dalla Polizia per presentare i suoi onestissimi libri…
Ho detto a mio figlio: quando si ricorda, bisogna avere l’accortezza di non dimenticare nessuno. Ci sono morti per una causa giusta e morti per una causa sbagliata. Istintivamente, mi spiace sempre di più per quelli che stanno dalla parte della libertà e della giustizia. Ma nel caso delle foibe il problema non dovrebbe nemmeno porsi: quei fantasmi che aleggiano sulla nostra memoria meritano un ricordo corale. O bipartisan, come usano dire adesso. Poi ho aggiunto: spero che la tua insegnante di storia sia un po’
meglio del tuo libro. Non serve una lezione intera: per non dimenticare,
basta un minuto.
PREGHIERA DELL’ESULE
Signore della vita e della morte,
della luce e delle tenebre,
dona la pace a coloro che vittime dell’odio inumano
hanno lasciato la vita nelle foibe del Carso;
fa che il loro sacrificio non venga mai dimenticato e che su quelle rocce,
prive purtroppo del segno di Cristo,
fioriscano le rose rosse del sacrificio della libertà;
dà o Signore, a questi Morti senza nome ma da te conosciuti ed amati la Tua Benedizione;
Signore, Tu che tutto ami e che tutto perdoni,
abbi pietà dei nostri Fratelli che ci hanno lasciato durante la diaspora.
Prima di prenderli nel Tuo immenso abbraccio nell’arco dei cieli, fa che il loro spirito riveda e gioisca ancora una volta di quell’angolo di terra che sempre ebbero scolpito nel cuore; a noi, Esuli in Patria e nel Mondo, dona serenità e rassegnazione nonché la speranza che un giorno sulle nostre terre abbandonate ma mai dimenticate, riappaia in cielo l’arcobaleno con i colori del nostro tricolore.
E così sia
Scuola Media di Pont Canavese:”La giornata del Ricordo”
LA GIORNATA DEL RICORDO
Martedì , 10 febbraio 2009, abbiamo assistito ad una lezione molto interessante. L’insegnante ci ha spiegato che il 10 febbraio di ogni anno vengono commemorati i martiri delle foibe e che questa data è stata denominata “il giorno del ricordo”.
Attraverso la rete abbiamo potuto vedere numerosi video su quel periodo che ci hanno fatto capire meglio quanto ci era stato spiegato in classe.
Molto interessante è stato il servizio di Rai Educational che riportva una intervista ad un sopravvissuto.
A questo punto una domanda ci è venuta spontanea: è possibile che la nostra storia si così piena di orrori e che alcuni uomini per vendicarsi di torti subiti o accaparrarsi nuovi territori si siano comportati come dei veri e proprii mostri?
E ‘quindi giusto che noi conosciamo questi fatti perché non si devono ripetere.
CLASSE I A SCUOLA MEDIA PONT CANAVESE
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Martedì 10 febbraio abbiamo ricordato la giornata delle foibe. noi non sapevamo niente di questi fatti , ma l’insegnante ci ha spiegato che circa 50 anni fa molti italiani che vivevano in Istria sono stati sterminati dalle truppe del generale Tito. questo sterminio consisteva nell’essere gettati in profonde buche scavate nel terreno (foibe) dopo essere stati uccisi con un colpo di fucile che, però spesso colpiva solo il primo della fila, per cui gli altri prigioneri che erano incatenati a lui morivano dopo molto tempo.
Fino al 2004, quando è stata istituita per legge dello stato la Giornata del Ricordo, cè stato un grande silenzio, ma per fortuna adesso se ne parla anche a scuola e noi ragazzi possiamo conoscere questi capitoli della storia che speriamo non si ripetano più.
CLASSE II A SCUOLA MEDIA PONT CANAVESE
Eroi dimenticati
COLTANO
http://it.wikipedia.org/wiki/Campo_di_concentramento_di_Coltano.
Scritta lapide del Campo di Concentramento di Coltano
IN QUESTO LUOGO
DAL MAGGIO AL NOVEMBRE 1945
SORGEVA IL CAMPO AMERICANO P.W.E. 337
DOVE 35000 SOLDATI DELLA R.S.I.
SOFFRIRONO UNA DURA PRIGIONIA
AI CADUTI E AI DISPERSI
DICHIARIAMO PERENNE RICORDO
22 SETTEMBRE 1996
(trentacinquemila)
Scusate ma è insopportabile la propaganda sionista che ha prodotto decine di film che drammatizzano e monetizzano un episodio di 60 anni fa che no nha colpito solo gli ebrei ma anche zingari, omosessuali, comunisti.. E’ una provocazione speculare sulla loro tragedia imponendola addirittura dando al termine olocausto lo sterminio degli ebrei e basta.
E pol pot ? E gli indiani d’america ? E gli altri ?
Certo, gli altri sono di serie B, i palestinesi meritano di essere deportati dalla loro terra, torturati, uccisi.. dai nuovi nazisti sionisti.
Riguardo alle foibe, le cifre sono gonfiate.
Rimane un fatto grave ma le cifre sono gonfiate.
Non dimentichiamo che gli italiano avevano fatto stragi enormi in iugoslavia i campi id sterminio a Rab per bambini un campo di concentramento per bambini e le esecusioni sommarie migliaia di civili uccisi dall’esercito del duce. Come in somalia, con i gas proibiti..
Le cifre dei Genocidi Comunisti nel Mondo
Paese Anni di Regime Totale Vittime
Afghanistan 1978 1987 228.000
Albania 1944 1987 100.000
Angola 1975 1987 125.000
Bulgaria 1944 1987 222.000
Cambogia (Kmer Rossi) 1975 1979 2.035.000
Cambogia (Samrin) 1979 1987 230.000
Cina 1949 1987 35.236.000
Cuba 1959 1987 73.000
Cecoslovacchia 1948 1968 65.000
Etiopia 1974 1987 725.000
Germania Est (ex DDR) 1948 1987 70.000
Korea del Nord 1948 1987 1.663.000
Mongolia 1926 1987 100.000
Mozambico 1975 1987 198.000
Nicaragua (Sandinista) 1979 1987 5.000
Polonia 1948 1987 22.000
Romania 1948 1987 435.000
Ungheria 1948 1987 27.000
URSS 1917 1987 61.911.000
Vietnam 1945 1987 1.670.000
Yemen del Sud 1967 1987 1.000
Yugoslavia 1944 1987 1.072.000
__________________________________________________________
Totale 106.213.000
Da aggiungere a questa cifra le vittime delle Guerriglie di Sinistra evvenute in giro per il Mondo negli
anni compresi tra il 1900 e il 1987 e che ammonterebbero a circa 4.019.000
__________________________________________________________
Si ringrazia la TRANSACTION PUBLISHER per aver reso possibile la
realizzazione di questo Documento mediante l’Opera :
“Death by Government Genocide and Mass Murder in the Twentieth Century”
a reperire cose degne di nota.
Totale Vittime
FOIBE = OBLIO Dice:
Aprile 19th, 2010 alle 20:19
Sabato, 13 febbraio 2010.
FOIBE 2010 – NELL’OBLIO
I morti nelle foibe? Vittime di serie B di Giordano Bruno Guerri Dietro la formalità dell’omaggio, le vittime delle foibe restano di serie B. La memoria si preserva con le cerimonie. Deve intervenire la scuola: vanno rivisti i libri di testo Già nei giorni scorsi c’era da riflettere su un’indagine statistica appena realizzata da FerrariNasi&Associati. Ne risulta che se, nel 2008, il 41 per cento degli italiani aveva una discreto grado di conoscenza della tragedia delle foibe, nel 2010 la percentuale è scesa al 38 per cento. Significa che, concluso l’exploit di un programma televisivo, la tragedia istriana sta già scomparendo dal ricordo del popolo italiano, giornate o non giornate. E si tratta di almeno 10.000 italiani scagliati in profonde fosse carsiche, nella più grave e violenta pulizia etnico-politica che il nostro popolo abbia subito nel Novecento. Fra i grandi quotidiani, ieri, soltanto il Giornale ha dedicato due pagine alla Giornata del Ricordo. Per limitarsi a citare i due maggiori, Corriere della Sera e Repubblica, si sono contenuti in colonnine striminzite. Poche (e poco pubblicizzate) le iniziative regionali, e anche alcune scuole non hanno brillato. Si segnala in Lazio una meritevole iniziativa del sindaco di Roma Gianni Alemanno e del suo assessore alla Pubblica istruzione Laura Marsilio, che hanno mandato nelle zone della tragedia, insieme agli insegnanti, quattrocento studenti (altri sono stati inviati a Auschwitz, Berlino, Hiroshima): muniti di tutta la documentazione e le informazioni necessarie per capire, compreso un discorso del sindaco e dell’assessore, di storici e di educatori. Anche le televisioni hanno brillato per servizi formali, riferiti – più che all’evento in sé – alle cerimonie cui hanno partecipato il presidente della Camera Gianfranco Fini e quello della Repubblica Giorgio Napolitano. Anch’io sono stato convocato, in un tg mattutino, per spiegare cosa sono state le foibe, quasi si trattasse di un oscuro episodio risalente al medioevo. Fra i libri appena pubblicati posso ricordare soltanto, per importanza, Foibe (S)conosciute, di Maria Antonietta Marocchi (I Libri del Borghese). Eppure proprio Napolitano dichiarò, nel 2007: «Va ricordato l’imperdonabile orrore contro l’umanità costituito dalle foibe (…) e va ricordata (…) la “congiura del silenzio, la fase meno drammatica ma ancora più amara e demoralizzante dell’oblio”. Anche di quella non dobbiamo tacere, assumendoci la responsabilità dell’aver negato, o teso a ignorare, la verità per pregiudiziali ideologiche e cecità politica, e dell’averla rimossa per calcoli diplomatici e convenienze internazionali». Sia reso merito all’ex comunista Giorgio Napolitano, per queste parole che ammettono una responsabilità di silenzio cui non fu estraneo. E sia reso merito anche alla Commissione Difesa della Camera che ieri ha approvato una legge per attribuire la medaglia d’oro «ai liberi comuni in esilio di Fiume, Zara e Pola». Tuttavia non è con le cerimonie e i discorsi di rito che il ricordo delle foibe, e di quanto significarono, rimarrà nelle menti degli italiani. Bisognerà spiegarle in tutta la loro strategica ferocia, non come un episodio crudelissimo in una guerra crudele. Le foibe furono, oltre che una strage disumana, un modo efferato per «convincere» oltre trecentomila italiani presenti in Istria e in Dalmazia a abbandonare case, terre, affetti e tutta la storia della loro vita, per «sfollare»: togliersi di torno per sempre da uno Stato pur composto da molte etnie, come quello jugoslavo. Il problema degli sfollati è pochissimo affrontato, se non in un libro – molto bello, molto commovente – di Luciano Ghelfi, Sfollati. Una storia italiana (Tre Lune, 260 pagine, 16 euro), che però non parla neanche di sfollati istriani e dalmati, bensì di una normale famiglia in fuga dal fronte. Figurarsi la tragedia di chi sfuggiva alle foibe. Una tragedia che verrà presto dimenticata – perché si vuole che venga dimenticata – se non provvederà la scuola a inserirla ampiamente nei libri di testo. Non per un inutile revanscismo, o per dimostrare – non ce n’è bisogno – che i cattivi si trovavano in tutte le parti in lotta. Ma perché il ricordo serva davvero a coltivare la volontà di non ripetere un odio senza fine e senza fondo. http://www.giordanobrunoguerri.it
Eroina dimenticata
Si sta spegnendo, sola e dimenticata, Maria Pasquinelli
Eroina che ha pagato per tutti la Sua ITALIANITA’.
« Seguendo l’esempio dei 600.000 Caduti nella guerra di redenzione 1915-18, sensibili come siamo all’appello di Oberdan, cui si aggiungono le invocazioni strazianti di migliaia di Giuliani infoibati dagli Jugoslavi, dal settembre 1943 a tutt’oggi, solo perché rei d’italianità, a Pola irrorata dal sangue di Sauro, capitale dell’Istria martire, riconfermo l’indissolubilità del vincolo che lega la Madre-Patria alle italianissime terre di Zara, di Fiume, della Venezia Giulia, eroici nostri baluardi contro il panslavismo minacciante tutta la civiltà occidentale. Mi ribello con il proposito fermo di colpire a morte chi ha la sventura di rappresentarli – ai Quattro Grandi, i quali, alla Conferenza di Parigi, in oltraggio ai sensi di giustizia, di umanità e di saggezza politica, hanno deciso di strappare una volta ancora dal grembo materno le terre più sacre all’Italia, condannandole o agli esperimenti di una novella Danzica o – con la più fredda consapevolezza, che è correità – al giogo jugoslavo, oggi sinonimo per le nostre genti, indomabilmente italiane, di morte in foiba, di deportazione, di esilio ».
Maria Pasquinelli
Pola, 10 febbraio 1947
UNA DONNA UNICA
MARIA PASQUINELLI http://atelierdiscrittura.splinder.com/post/19015523
Stefano Zecchi è il primo che ha scritto con tratto umano il dramma di una donna unica. Aver lasciato parlare i fatti senza debordare sul romanzo, a mio avviso, è stato doppiamente ben fatto: ha avuto il coraggio di passare con grande afflato di verità su fatti che da oltre mezzosecolo sono nascosti o strumentalizzati. E poi aver rispettato il lungo riserbo di Maria, eroina col suo dramma personale nella vasta tragedia di un popolo tormentato fino alla cacciata dalle proprie case, dai propri campi, dai propri cimiteri, dalla propria storia e dalla propria identità. Questo piccolo grande libro che meriterebbe aperta e più dichiarata diffusione è il segno di uno scrittore e di un uomo per cui l’estetica non è solo forma ma solida sostanza.
Per Maria Pasquinelli, insegnante italiana a Pola, la decisione degli Alleati di cedere alla Jugoslavia di Tito, assieme a tutta l’Istria, anche il capoluogo, azzerando ogni residua speranza, fu assolutamente inaccettabile. Il 10 febbraio 1947, giorno del “diktat”, in preda allo sconforto, ma consapevole di sacrificare la propria vita, uccise il Gen. Robert De Winton, comandante della piazzaforte di Pola e simbolo di chi aveva calpestato legittime attese e buon diritto degli italiani, che non a caso avrebbero scelto plebiscitariamente di esodare. Una Corte inglese la condannò a morte con sentenza commutata in ergastolo, e seguita dopo 17 anni da una grazia non richiesta: la Patria avrebbe dovuto adeguatamente onorarla, ma così non è stato. Oggi, la novantasettenne Maria vive ancora vicino a Bergamo, dimenticata da tutti.
Trieste 11 aprile 1947
Il 10 febbraio 1947, a Pola, mentre il brigadiere generale De Winton, comandante la 13° brigata di fanteria, ispezionava le sue truppe, una giovane donna riuscì ad avvicinarlo e a sparargli al cuore con una rivoltella. Il generale rimase ucciso all’istante. La donna non fece nessun tentativo di fuga: Maria Pasquinelli attese, sgomenta, il suo destino.
-Scrisse Michael Goldsmith dell’Associated Press che nei giorni dell’esodo un’atmosfera tesa e dolente arroventava a Pola cuori e cervelli.
-“Effettivamente molti sono i colpevoli del dramma istriano. La popolazione non trova nessuno che la comprenda nei suoi sentimenti: tra gli slavi apertamente nemici in attesa di entrare in città e gli alleati freddi ed estremamente guardinghi, gli uomini, le donne, i vecchi e i giovani di Pola sentono ogni aspirazione, ogni loro impulso – anche il più nobile e più puro – costretti entro una ferrea ed implacabile morsa. L’impopolarità degli alleati si è affiancata alla ostilità verso gli slavi. Ad essi e specie agli inglesi, gli abitanti di Pola imputano di non aver mantenuto le promesse fatte durante la guerra, sopratutto quella che all’Italia sarebbe stata accordata una pace onorevole”.
-In questo clima di angoscia esplose la ribellione di Maria Pasquinelli. Indosso le fu rinvenuta una lettera: esasperata protesta per richiamare l’attenzione del mondo sul problema e sulla tragedia dell’Istria. Voleva, credendo di poter rimanere morta sul colpo, che gli italiani sapessero i motivi che l’avevano spinta a quel gesto.
-Non conobbi Maria Pasquinelli. Ma ricordo che quando accolsi in Prefettura gli ultimi profughi da Spalato questi mi parlarono di lei con riverente ammirazione. Maria Pasquinelli a Spalato dopo la tremenda persecuzione dei partigiani comunisti del settembre 1943 aveva esumato i cadaveri degli italiani e dato loro sepoltura. Per intere giornate, senza riposo, assistè alla lugubre e raccapricciante opera di dissotteramento per identificare le vittime e portare ai loro cari almeno la prova della loro morte. Durante la breve dominazione partigiana di Spalato fu arrestata. In prigione donne croate l’aiutarono a sfamarsi, ammirate dalla sua bontà. Lasciata Spalato, minacciata di morte, apprese a Trieste del massacro di altri 500 italiani compiuto dai partigiani di Tito nell’Istria e nella riviera del Carnaro e si incupì ancora di più. Vide lo stesso tragico destino della Dalmazia pesare sulla Venezia Giulia. Non si diede più pace.Tentò di unire fascisti e partigiani in un solo blocco. Inviò al Governo di Bonomi rapporti sull’Istria. Denunciò gli errori del movimento partigiano. Invocò uno sbarco degli alleati nella penisola istriana che prevenisse un’invasione delle armate di Tito, avendo chiara la visione che il pericolo per la Venezia Giulia non fosse la Germania destinata alla sconfitta ed al crollo ma l’avanzata degli slavi. Ritornò a Trieste dopo l’occupazione di Tito con lo scopo di diffondere la conoscenza del problema giuliano nel resto d’Italia. Confidò nella giustizia dei Quattro Grandi. Ma quando ogni speranza venne meno con la firma del trattato e vide Trieste sacrificata e tanta parte dell’Istria condannata alle foibe e alla deportazione e lo scempio di Pola, il suo animo non resse più, sparò, uccise, gridò al mondo la sua protesta contro l’ingiustizia che si commetteva nei confronti dell’Italia.
-Imputata di omicidio premeditato, fu trasportata a Trieste per essere giudicata dall’Alta Corte Militare Alleata. Ho saputo che a Trieste era stato preparato un piano per liberarla, ma che Maria Pasquinelli ricusò. Considerava spregevole la condotta di chi, dopo aver compiuto un atto terroristico, cerchi di sottrarsi con la fuga al suo destino. Affrontò serenamente il giudizio. Si riconobbe colpevole. Il Presidente della Corte, nonostante l’ammissione dell’imputata, volle che il dibatimento si svolgesse ugualmente. Maria Pasquinelli non rinnegò il suo gesto. “Colpendo il comandante della piazza di Pola non ho inteso colpire l’uomo; nemmeno la divisa. La divisa inglese, come tutte le divise, rappresenta una patria e perciò mi è sacra. Solo perchè rappresentava i Quattro Grandi, in segno di protesta per il Tratttato di pace, io l’ho colpito”.
-Quando il suo difensore le chiese come avesse potuto superare i suoi scrupoli religiosi nel determinarsi a uccidere il generale Winton, Maria Pasquinelli rispose che molto meditò per cercare di risolvere il problema religioso, ma che, incapace, si raccomandò all’infinita misericordia di Dio. “Forse, disse, ho amato l’Italia anche più della mia anima”.
-Ieri una grande folla stipava, ansiosa, l’aula del tribunale.
-La Corte, dopo breve permanenza in camera di consiglio, ha concluso con l’affermazione che l’accusata uccise senza giustificazione o scusante logica. Nel silenzio, pieno d’angoscia, Maria Pasquinelli, ha atteso calma la sua sentenza di morte.
-Grande è stata la commozione nell’aula. Donne piangevano e chiamavano per nome la condannata: Vivissima impressione in città. Il cuore di Trieste si è sentito vicino a Maria Pasquinelli.
-A pochi passi dal Tribunale era stata eretta, nell’82, la forca per Guglielmo Oberdan.
Bruno Coceani
cfr. ??
http://brunodam.blog.kataweb.it/category/popoli-e-politiche/page/3/
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La giustizia secondo Maria
Rosanna Turcinovich Giuricin
DEL BIANCO EDITORE – Civiltà del Risorgimento – Collana di saggi, testi e studi del Comitato di Trieste e Gorizia dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano a cura di Giulio Cervani e Fulvio Salimbeni- 2008 – pagine 134, Euro 15,00.
Pola 1947: la donna che sparò al generale brigadiere Robert W. De Winton.
Una vicenda remota, ormai ignota ai più, quella dell’insegnante Maria Pasquinelli, che la mattina del 10 febbraio 1947, a Pola, in quella data fatidica della perdita di ogni speranza e nella cornice della città simbolo dell’esodo giuliano e dalmata, uccise il comandante della guarnigione britannica, Robert W. De Winton. Una vicenda la sua, che si intrecciava tragicamente con il destino della Venezia Giulia ceduta alla Jugoslavia di Tito, con gli eccidi delle Foibe e con l’esodo della popolazione italiana autoctona sotto l’incalzare delle violenze esercitate dal nuovo regime nazionalcomunista. Un contesto drammatico, reso inverosimilmente complesso dalle tensioni internazionali scaturite da fronti ideologici opposti e interessi divergenti sul terreno fragile martoriato di una regione abbandonata alla cecità degli eventi.
Ribellione tragica e solitaria, quella di Maria Pasquinelli, che per manifestare al mondo l’infamia dell’ingiustizia subita assunse su di sè la responsabilità senza pari di uccidere un simbolo delle Grandi potenze, quel De Winton che non conosceva ma che rappresentava visivamente i “Quattro Grandi” che avevano appena ceduto le regioni orientali alla Jugoslavia titoista.
Assassinare un uomo, stroncare consapevolmente una vita per affermare un diritto: quanto vale una vita, quanto vale un diritto? E può, quell’evento, essere raccontato, e attraverso il racconto reso almeno tollerabile? Può, se affidato alla sensibilità e alla misura rare di cui dà prova Rosanna Turcinovich Giuricin in “La giustizia secondo Maria” il primo documentato testo che ci restituisce la storia di Maria Pasquinelli, alla quale l’autrice dà, dopo 60 anni, corpo e voce con tatto e levità. Un libro-intervista, ma anche una ricostruzione a più voci mediante la quale la giornalista di origine istriana rende a noi immediatamente contemporaneo ciò che è infinitamente lontano, ponendoci di fronte alla donna che ancora ai nostri giorni è consapevole di avere su di sè un peso insostenibile: “Maria Pasquinelli ” dice nel volume un’amica ” mi ha sempre detto che il suo morto se lo porta dietro le spalle, il suo fiato lo sente sul collo e il tempo non riuscirà a cambiare nulla ()”.
L’insegnante bergamasca si fece arrestare immediatamente, avendo sperato di venire uccisa dal corpo di guardie, in tasca un proclama che venne allegato agli atti processuali. Una vita è una vita, così come quelle falcidiate dagli infoibamenti, come quelle dimezzate e deluse dal trauma dell’esodo forzato. Quel gesto suscitò allora enorme clamore, mentre l’imputata, conclusa la sua deposizione davanti la Corte militare alleata di Trieste, due mesi dopo l’accaduto ” e riportata nel volume – , si chiuse nel silenzio durato sei decenni, così lungo e denso da annullare la memoria pubblica; a tal punto che la si credeva scomparsa, lei come le vicende degli esuli incolpevoli. Fino a quando Rosanna Turcinovich Giuricin non ha percorso il sentiero ai margini della storia che l’ha condotta davanti alla donna, che oggi scruta con sguardo vigile ma impermeabile la sua interlocutrice, i suoi amici, un’ombra.
“Chi è Maria Pasquinelli? ” si legge nell’arringa del suo difensore al processo, Luigi Giannini ” Una donna la quale ha avuto sempre e in tutti i sensi comportamento lodevole, vita dura ed austera, ineccepibile e proba”. Incline tuttavia ad azioni temerarie, come nel caso, nell’ottobre del 1943, della esumazione di centosei italiani fucilati a Spalato dai partigiani di Tito: tra le salme, quella del provveditore agli studi Soglian. O della tentata mediazione, poco dopo a Trieste, tra i militi della X MAS e le formazioni partigiane non comuniste della “Franchi” e della “Osoppo” per un unico fronte anti-jugoslavo in difesa dell’integrità territoriale dei confini orientali. “Quando scoppiò la guerra ” riconosceva la Pasquinelli nel corso del dibattimento ” sentii il bisogno () di partecipare come potevo alla guerra (). Perciò divenni crocerossina e partii per il fronte dell’Africa Settentrionale”. Percependo l’eroismo dei militari italiani inferiori per mezzi al nemico inglese e al contempo la strisciante stanchezza o l’assenza di “una forza ideale”, la maestra si fece tagliare i capelli, si travestì da soldato e raggiunse la linea del fronte: “Con me recavo una scritta nella quale si poteva leggere “Bimbi d’Italia con voi, per voi!”. Perchè “la stessa fine può essere fatta da vittima o da eroe, – è tutto questione di coscienza ()”.
Una personalità, questa, che venne definita da taluni egoistica, minata da un’inclinazione all’esibizionismo come affermazione di sè e della propria “perfezione morale” attraverso atti impropri e commendevoli. Il suo difensore, in un’arringa che ci riconduce alle atmosfere giudiziarie del primo Novecento, intrise di ineffabili psicologismi e immaginifiche ricostruzioni su uno sfondo oscuro di emotività eccessive e singolari, ne difese l’integrità mentale e l’innocenza sostanziale.
L’imputata confermò le sue motivazioni, il difensore scrisse pagine di ampollosa retorica forense. Tramutata in ergastolo la condanna a morte, per la quale aveva dichiarato di non voler presentare ricorso, Maria Pasquinelli divenne una condannata modello, fino al 1964, anno della grazia.
Rosanna Turcinovich Giuricin si inoltra quindi nella successiva storia giudiziaria che non smentiva il carattere della maestra Pasquinelli: avuta notizia della possibile revisione del processo, ancora indirizzava alle ambasciate di Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti lettere con le quali chiedeva di non tener conto e non dare seguito ai passi che si andavano compiendo in suo favore. La pena, non quella desiderata, doveva essere definitiva, fin quando almeno non fosse stata giudicata da un tribunale italiano.
Con la meditata articolazione del suo libro, che alterna con equilibrio i resoconti del tempo e la narrazione del presente, l’autrice impedisce che il lettore si angusti, come sarebbe naturale, oppresso da una storia che conserva e trasmette intatti gli echi del lutto. I suoi dialoghi con l’insegnate e le puntuali ricostruzioni dell’intero contesto entro il quale quell’evento accadde, donano un senso umano e storico a quanto appare disumano e insensato. Così gli incontri con gli antichi allievi, con i quali l’insegnante Pasquinelli, fin tanto che rimase in carcere, mantenne contatti epistolari generosi di incoraggiamenti. Dalla prigioniera ai liberi.
“Nella storia dell’esodo ” annota la Turcinovich Giuricin ” e del quotidiano che ne è seguito in queste terre, anche il gesto estremo della Pasquinelli ha una sua collocazione ed un peso” che diventano intellegibili alla luce delle più ampie, dolorose vicissitudini dei territori contesi e ceduti in spregio ai conclamati valori di libertà e giustizia. “Questa mancanza di chiarezza sul ruolo della storia in queste terre nel contesto nazionale e internazionale ” prosegue l’autrice ” lascia spazio ad interpretazioni spesso oneste, di storici convinti (), ma anche di tanti altri che in buona fede non sono e del pescare nel torbido hanno fatto quasi una ragione di vita”. Ed ha ragione quando rimarca come “non era solo l’atrocità della guerra, ma quell’idea del male che trasforma le persone” ad assumere infinite, inesauribili vesti.
“Il dramma di Maria Pasquinelli ” chiarisce lo storico Diego Redivo nella sua Premessa al volume ” rappresenta alla massima potenza quel mondo in cui si era formata ed era cresciuta, contrassegnato dal micidiale miscuglio fra l’indottrinamento ottuso del fascismo e le immense tragedie della storia mondiale che dimostrarono come ben altri fossero gli interessi delle “superpotenze” piuttosto che dar credito a popolazioni perseguitate e sradicate da territori che per millenni avevano civilizzato ()”. L’esplosiva combinazione della disfatta militare con l’invasione del territorio giuliano da parte delle bande partigiane titine e l’asservimento alla volontà delle potenze vincitrici determinò il corto circuito mentale e spirituale di una donna che assunse su di sè, come annota Redivo, l’onere insostenibile dell’”impotenza dell’intera nazione”. Il suo gesto, eclatante disperato, costituisce certamente un’unità di misura, per quanto tremenda e sterile, dell’enormità del destino abbattutosi sulle genti istriane e dalmate. Ci sembra essere questa la giusta chiave di lettura assunta dalla Turcinovich Giuricin nel riaprire, per così dire, il fascicolo di Maria Pasquinelli, che non è stato soltanto giudiziario, ma umano. E se i fondali dell’animo sono interdetti al più sensibile osservatore, al lettore può essere di guida quanto si legge in un numero unico, “L’Esodo di Pola”, edito nel 1947 a ridosso dei fatti e citato da Redivo: “() proprio la nostra generazione deve esecrare la violenza, perchè da essa è stata decimata numericamente, diminuita spiritualmente. Compiangiamo la vittima col nostro dolore più vivo perchè in essa abbiamo visto l’uomo violentemente soppresso. Ma egli è compianto anche più dolorosamente da Maria Pasquinelli”.
http://brunodam.blog.kataweb.it/category/popoli-e-politiche/page/3/
venerdì, 27 giugno 2008
Il Manuale Cubrilovic 2
MARIA PASQUINELLI
A seguito riporto un post che mi e’ arrivato da Licia Rasoni (ma che non riesco ad inserire nei “Commenti”) su Maria Pasquinelli ed il suo processo, dove vi sono riferimenti alla PULIZIA ETNICA (seguendo il “modello Cubrilovic”) degli Italiani in Dalmazia (Spalato) ed Istria nel 1943/1944/1945 da parte del dittatore comunista Tito. (Following is a post about the relationship between the Foibe in Istria and Dalmatia and the Cubrilovic ethnic cleansing in the Tito’s Iugoslavia).
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POST DI LICIA RASONI:
RIPORTO UN ARTICOLO SU MARIA PASQUINELLI, DOVE SI HANNO LE SUE DICHIARAZIONI INTORNO ALLA PULIZIA ETNICA “ALLA CUBRILOVIC” DEGLI ITALIANI IN DALMAZIA (SPALATO) ED ISTRIA NEL 1943/1944/1945:
Bergamo – Non si è pentita di averlo fatto, ma per tutta la vita ha pregato per l’uomo contro il quale quel giorno puntò la rivoltella. Non lo aveva mai visto prima di allora, lo riconobbe perché portava sul berretto una striscia rossa. Segno del suo grado, generale comandante le forze alleate in Istria, l’uomo che formalmente avrebbe consegnato quella terra agli jugoslavi. Lui, inglese, era sposato e aveva una bimba di pochi mesi. Lei, italiana, era un’insegnante, che con furore pari all’ingenuità amava l’Italia. In Africa aveva perfino dismesso la divisa da crocerossina e si era travestita da soldato per andare a combattere al fronte. Robin De Winton agli occhi di quella giovane donna era il simbolo della perduta libertà della terra istriana. A Pola lui era il massimo esponente dei Quattro Grandi. Lo uccise con tre spari, mentre entrava al comando; era il 10 febbraio del ‘47, il giorno della firma del trattato di pace a Parigi. Maria Pasquinelli fu condannata a morte da un tribunale alleato, poi consegnata agli italiani per non farne una martire e la pena commutata in ergastolo.
Oggi ha 84 anni, vive con la sorella a Bergamo e non ha voglia di parlare del passato.
Per quale motivo non vuole ricordare. Ritiene di aver fatto un errore?
«Non voglio parlare perché il fatto è quello che è, ed è assolutamente inutile che io ne parli a posteriori. Il fatto è quello e ognuno lo interpreti secondo il suo punto di vista. Ovviamente se si fanno certe azioni si spera possano dare un vantaggio, mettiamo, storico, ma in ogni caso di quelle azioni si impadronisce l’opinione degli altri, di chi le approva e di chi le condanna. Per me volerne parlare è inutile»
Ma il caso in cui maturò quel fatto è ancora aperto e dunque ha un senso parlarne.
«Certo che è ancora aperto, ma se fossi stata uccisa come era nelle mie previsioni non parlerei più e voi dareste le interpretazioni che vorreste».
Quanto tempo è rimasta in carcere?
«Ho fatto tre anni a Perugia, sei o sette mesi a Venezia e il resto dei 17 anni, sette mesi e 20 giorni a Santa Verdiana a Firenze. Sono uscita nel ‘64, il 22 settembre».
Ed è subito venuta a Bergamo.
«No, solo da sei anni. Mia madre era bergamasca e di questa gente io ho la spregiudicata schiettezza. Mio padre invece era marchigiano, di Jesi. Sono nata a Firenze con altri due miei fratelli, in via delle Panche, dove c’è l’Opera della Madonnina del Grappa di don Facibeni e don Facibeni veniva sempre a trovarmi in carcere. Lo fece fino a pochi giorni prima di morire. Fu lui che mi aveva battezzata, era molto amico di mio padre».
Le deve essere stato di grande aiuto.
«Era un uomo molto semplice e molto caro. Venne a trovarmi anche il 25 aprile nel ‘58. Il giorno prima era stato sul Grappa, perché là era stato combattente, medaglia d’argento. Era andato a far visita al suo capitano che era gravissimo. Fu l’ultima volta che lo vidi. Morì in giugno. Sino alla fine rimasi in contatto con lui e gli facevo sempre celebrare una messa tutti i 10 del mese, per ricordare la morte del generale di Pola».
Mai avuto contatti con la famiglia De Winton?
«Lui era sposato e aveva un bimba di pochi mesi. Ma queste notizie io le ho apprese dopo il fatto. Io non sapevo niente della famiglia di lui. E il parroco di Castelfiorentino, si chiamava don Dina, che era stato segretario del vescovo di Pola, monsignor Radossi, una volta venne in carcere a visitarmi e mi disse che era andato all’università di Friburgo, dove aveva conosciuto un sacerdote, che era il fratello del generale e questo fratello gli disse che a sua cognata, la moglie del generale morto, rincresceva che io stessi in carcere. Così mi disse».
Lei non ha mai cercato un contatto con la moglie?
«No, perché di fronte a certi fatti le parole sono inutili. Comunque so di avere avuto la sua comprensione».
Come giudica la revisione storica che di recente è stata fatta anche dalla sinistra ex comunista sulla verità delle foibe e del problema istriano?
«Come tutti sappiamo c’è stata la congiura del silenzio su tutta la storia del confine giuliano. In omaggio al comunismo italiano, nessun partito ha avuto il coraggio di affrontare l’argomento. Adesso si comincia a parlarne. Il silenzio è stato motivo di grande sofferenza per gli esuli e per i parenti di quelli che furono uccisi solo perché italiani. Dei 30 mila abitanti di Pola, 28 mila furono costretti a venir via. Questo dice tutto».
Con don Facibeni parlò di quel delitto?
«Sapeva chi ero ma non abbiamo mai affrontato l’argomento».
Lei non aveva il bisogno di parlarne?
«E perché avrei dovuto parlare con lui? Il problema l’avevo già risolto molto prima».
Inutile chiederle se abbia mai avuto il dubbio di aver sbagliato. Si ha l’impressione che lei non si sia mai posta la domanda.
«A volte trovo qualcuno, che mi chiede: se tornasse indietro? Io rispondo: se tornassi indietro avrei la stessa età, sarei ancora a quei tempi, sarei ancora quella».
Marzo 1947. I VERBALI DEL PROCESSO: “Ho sparato contro il trattato di pace”
Questo il racconto che Maria Pasquinelli fece davanti ai giudici, nel corso del processo che si tenne nel marzo-aprile 1947, in cui fu condannata a morte.
«L’ho colpito per protesta contro il trattato di pace e solo perché era il massimo rappresentante dei Quattro Grandi a Pola. Lo avevo visto, di spalle, una volta sola, il martedi precedente l’attentato. Non sapevo nulla di lui, non conoscevo nemmeno il suo nome. Quando lo colpii, il generale non ebbe l’impulso di scappare. Dapprima sparai due colpi, anche se mi parve di sentire un solo colpo. Lui ebbe l’impulso di voltarsi per vedermi in faccia. Ho nettamente presente lo sforzo che fece per voltarsi verso di me. Mi sfuggì… sparai il terzo colpo. Solo allora il generale barcollando si allontanò verso il comando. Rimasi sola. Mi accorsi che la sorpresa mette l’attentatore in enorme superiorità rispetto agli altri. Non intendo dire che i soldati presenti si comportarono da vili. Di fronte alla sorpresa dei colpi chiunque sarebbe potuto scappare. Tornò poco dopo un soldato, avanzò verso di me con il fucile puntato e l’evidente intenzione di non spararmi. Non si avvicinò direttamente. Ma camminava cercando quasi di aggirarmi. lo tenevo la rivoltella in mano, ma puntata verso terra. Gli feci cenno che non intendevo sparare, ma egli non poteva capire. Allora posai la rivoltella per terra. Mi prese e mi condusse al comando». [Giovanni Morandi]
Riportato da: LA NAZIONE del 5 Febbraio 1997. Firenze.
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Maria Pasquinelli (Firenze, 1913) si era diplomata maestra elementare e successivamente laureata in pedagogia a Bergamo. Fascista fervente, frequentò la Scuola di Mistica Fascista. Divenne famosa per aver ucciso il comandante della guarnigione britannica di Pola nel febbraio 1947, come protesta per l’esodo istriano.
Dopo l’attentato Maria Pasquinelli fu processata due mesi dopo il fatto dalla Corte Militare Alleata di Trieste Il dibattito si svolse senza tumulti né colpi di scena. L’imputata si dichiarò colpevole e spiegò le ragioni che l’avevano indotta a compiere l’attentato. Una sola volta l’aula fu fatta sgombrare dal presidente Chapman. Accadde quando il difensore avv.Giannini, invitato dal presidente ad adeguarsi alla procedura seguita dalla Corte alleata, rispose:
“Prima di ogni altra cosa, signor presidente, io mi considero un italiano che difende un’italiana”
Nell’aula il pubblico applaudì e si udirono gridi “Viva l’Italia”. Fu allora che l’aula venne fatta sgombrare.
Il 10 aprile la Corte alleata pronunciava la sentenza che la condannava a morte, l’imputata si raccolse in silenzio, il pubblico rumoreggiò e le donne scoppiarono in singhiozzi. Il giorno seguente Trieste fu inondata da una pioggia di manifestini tricolori sui quali era scritto:
“Dal pantano d’Italia è nato un fiore: Maria Pasquinelli”
In seguito, la pena capitale fu commutata nel 1954 in ergastolo e fu trasferita nel penitenziario di Perugia.
Nel 1964 tornò in libertà, ma non ha mai concesso interviste. Maria Pasquinelli ha cercato di farsi dimenticare da allora e tuttora vive a Bergamo.
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PROCESSO DI MARIA PASQUINELLI
Il Dramma della
Venezia Giulia
Del Bianco editore – Udine 1947
Interrogatorio
di Maria Pasquinelli
Per iniziativa di un gruppo di donne istriane, viene qui pubblicato il resoconto stenografico raccolto in udienza delle dichiarazioni rese da Maria Pasquinelli al suo processo innanzi la Corte Militare Alleata, e dell’arringa pronunciata dal suo difensore.
È troppo ovvio che esula dalla iniziativa ogni intenzione di esaltare le deprecabili conseguenze umane del gesto, tuttavia compiuto con l’anima tesa a denunciare incredibili orrori, a salvare tanti fratelli, ad accendere un faro alla speranza degli errabondi istriani.
Ciò che pubblichiamo consacra quel gesto in nobiltà di intendimento, spirito di umana solidarietà, amore alla propria Patria, – pur nel rispetto di quella altrui – così alti, che certo tornerà di giovamento in questi tempi di nequizia, di abbandono, di sconforto.
E l’iniziativa sarà anche un segno di riconoscenza verso la fragile donna, che dal suo animo profondamente mite trasse la tragica forza con cui immolò la Vittima e Sé stessa alla incoercibile aspirazione di bene.
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Seguendo l’esempio dei 600.000 Caduti nella guerra di redenzione 1915-18, sensibili come siamo all’appello di Oberdan, cui si aggiungono le invocazioni strazianti di migliaia di Giuliani infoibati dagli Jugoslavi, dal settembre 1943 a tutt’oggi, solo perché rei d’italianità,
a Pola
irrorata dal sangue di Sauro, capitale dell’Istria martire,
riconfermo
l’indissolubilità del vincolo che lega la Madre-Patria alle italianissime terre di Zara, di Fiume, della Venezia Giulia, eroici nostri baluardi contro il panslavismo minacciante tutta la civiltà occidentale.
Mi ribello
– con il proposito fermo di colpire a morte chi ha la sventura di rappresentarli – ai Quattro Grandi, i quali, alla Conferenza di Parigi, in oltraggio ai sensi di giustizia, di umanità e di saggezza politica, hanno deciso di strappare una volta ancora dal grembo materno le terre più sacre all’Italia, condannandole o agli esperimenti di una novella Danzica o – con la più fredda consapevolezza, che è correità – al giogo jugoslavo, oggi sinonimo per le nostre genti, indomabilmente italiane, di morte in foiba, di deportazione, di esilio.
Maria Pasquinelli
Pola, 10 febbraio 1947
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Il Presidente chiede alla Pasquinelli se intende oppur no deporre come testimone di se stessa. In caso affermativo, dovrà prestare giuramento e rispondere, oltre che alle domande della difesa, anche a quelle dell’accusa.
La Pasquinelli risponde che intende deporre.
DIFESA: Vuol esporre con ordine quella che lei ritenga utile alla chiarificazione del suo gesto?
PASQUINELLI: Comincio a parlare dell’episodio avvenuto a Pola il 10 febbraio u.s. Quello che ho dichiarato nella relazione corrisponde a verità. Però vi sono delle divergenze fra quello che dico io e quello che è stato dichiarato dai testimoni questa mattina (1).
Anzitutto dirò che io, colpendo il comandante della Piazza di Pola non ho inteso colpire l’uomo, Ma nemmeno la divisa.
La divisa inglese, come tutte le divise, rappresenta una Patria e perciò mi è sacra.
Il massimo rappresentante dei Quattro Grandi a Pola, purtroppo era un uomo e per di più un soldato; solo perché rappresentava i Quattro Grandi, in segno di protesta per il trattato di pace, io l’ho colpito.
Quando la prima volta io decisi di compiere l’attentato di fronte al comando di Pola, io feci perché essendomi accorta casualmente che il generale a quell’ora si trovava innanzi a cinque militari armati, sentii che mi sarebbe stato più facile vincere la repugnanza che mi derivava dall’attentato, nel quale, da parte degli attentatori, c’è sempre della viltà perché si coglie di sorpresa.
Pensavo che, sebbene egli personalmente non si potesse difendere, avrebbe potuto forse essere difeso dagli armati che gli stavano di fronte, o perlomeno, pensavo che la massima offesa era meno repugnante perché contemporaneamente vi era la possibilità di una massima offerta.
Durante l’avvenimento mi accorsi, non già perché fu vile chi io colpii, che avevo giudicato male, perché la sorpresa mette l’attentatore in enorme superiorità rispetto agli altri. Devo dire, perché è vero, che il Generale, quando fu colpito, non ebbe l’impulso di scappare. Io dapprima sparai due colpi, dico due perché ho sentito stamane che i colpi, furono tre. Non potevo rendermi conto, in quel momento, del movimento della mano; al mio orecchio parve che risuonasse un colpo solo.
In ogni modo il generale, dopo aver ricevuto quello che ritenevo fosse uno, ma che effettivamente invece erano, due colpi, non si mosse per scappare, ebbe l’impulso di voltarsi per vedere quello che per lui era l’assassino.
Ho nettamente presente lo sforzo che egli fece per voltarsi verso di me. Mi sfuggì… Sparai il terzo colpo; solo allora il generale barcollando si allontanò verso il comando. Rimasi sola.
Non intendevo dire con questo che i soldati presenti furono vili. Di fronte alla sorpresa di colpi simili, chiunque avrebbe potuto scappare.
Tornò poco dopo un soldato; probabilmente gli altri si trattennero per assistere il generale.
Il soldato che si avanzò verso di me teneva il fucile puntato, ma con l’intenzione evidente di non spararmi. Non si avvicinò direttamente a me, ma camminava cercando, quasi di aggirarmi. Io tenevo sempre la rivoltella in mano, ma puntata verso terra. Gli feci cenno con la testa, che non intendevo sparare, ma egli non poteva capire. Allora mi chinai e posai la rivoltella per terra. Il sergente mi prese e mi condusse al comando. Entrata, dopo aver percorso il corridoio che costituisce l’atrio, quando stavo per entrare nel corpo di guardia, vidi un soldato cadere di colpo davanti a me. Fu preso e portato sul letto nel corpo di guardia, dove fui fatta entrare io pure. In un primo tempo pensai che egli fosse il generale. Dopo soltanto ho avuta la certezza che non era il generale. Io, per fortuna, non conosco la sua fisionomia. Lo avevo visto una volta sola, il martedì precedente all’attentato, alle spalle. La certezza che era lui il comandante l’avevo avuta soltanto dalla fascia rossa che lo distingueva. Non conoscevo né il nome, né la fisionomia, né i particolari della sua famiglia.
Quando fui presa, consegnai il foglio che, tenevo con me. Lo avevo scritto pensando che io stessa potessi rimanere colpita nell’attentato. Volevo che si sapessero comunque i moventi che ad esso mi avevano spinta.
DIFESA: E se l’attentato non fosse riuscito?
PASQUINELLI: Anche se l’attentato non fosse riuscito, era giusto che si sapesse che io avevo avuta l’intenzione di uccidere.
DIFESA: A quale scopo avrebbe voluto che si sapesse? Per poi subirne la pena, o per sfuggirla?
PASQUINELLI: Per consuetudine assumo sempre fino in . fondo la responsabilità delle mie azioni.
DIFESA: Vuole esporre quando balenò in lei l’idea di compiere un gesto che significasse protesta per la situazione in cui la sua Patria veniva a trovarsi?
PASQUINELLI: La prima volta che sentii la necessità di richiamare l’attenzione del mondo sulla tragedia della Venezia Giulia, fu quando, nella penultima seduta precedente alla riunione dei Ventuno a Parigi, il rappresentante dell’America tornando in Patria disse che nutriva fede che nella prossima riunione dei Quattro Grandi si potessero raggiungere risultati concreti nella questione giuliana attenendosi alla linea francese con qualche modificazione.
Capii allora che l’Istria era sacrificata, e che non solo l’Istria ma anche la sorte di Trieste diventa molto incerta. Attesi ansiosamente che i Quattro si riunissero, e mi pare si riunissero nel giugno del 1946.
Fu allora che i miei dubbi divennero certezza.
La Venezia Giulia veniva in parte consegnata agli jugoslavi; Trieste veniva sacrificata agli imperialismi anglo-americani. Sentii ugualmente atroce la sorte dei miei fratelli giuliani; se una parte di loro veniva condannata alle foibe, alla deportazione, all’esilio, un’altra parte veniva condannata alla internazionalizzazione.
Proclamare un territorio internazionale è un fatto, secondo me, mostruoso. Ogni territorio assume un nome a seconda del popolo che lo occupa; Trieste è terra d’Italia, e l’aveva riconosciuto la Commissione inglese, americana e francese. È assurdo pensare che la coscienza degli abitanti possa divenire internazionale.
L’anima dei miei fratelli giuliani, dei miei fratelli triestini sarebbe rimasta sempre italiana, disperatamente italiana. Avrebbe avuto giorno per giorno il martirio di vedersi strappato millimetro per millimetro questa sua terra.
Infatti, per poter dimostrare che questo territorio è internazionale, gli jugoslavi, gli americani, gli inglesi, gli abitanti di qualsiasi parte del mondo, sarebbero venuti ad occuparlo, e non sarebbero riusciti ad internazionalizzare la terra, ma soltanto a scatenare una lotta accanita fra gli egoismi, con il martirio profondo soltanto di una delle popolazioni occupanti: di quella che ne era la legittima padrona, della popolazione italiana.
Allora, per richiamare l’attenzione di tutti su questa tragedia, sperando che i Ventuno avessero potuto avere efficacia contro la decisione dei Quattro, io decisi, prima che i Ventuno si riunissero, di compiere il mio attentato.
Mi recai a Pola per sentire proprio l’animo di quella popolazione italiana. Il 2 luglio, il giorno in cui i Quattro Grandi decidevano la sorte della Venezia Giulia, sentii tutto lo strazio dei polesani. Si aggiravano per le strade, muti, sperduti, come di fronte ad un’immane, imprevista tragedia; l’unica domanda che di tanto in tanto si rivolgevano tra di loro, era questa : «Cosa faremo? Dove andremo?».
Sentii che era necessario difenderli.
Se non ci fosse stata l’occupazione alleata di un anno, i polesani non si sarebbero compromessi tanto, confessando nel modo più spregiudicato il loro amore all’Italia. Essi avevano fatto tutto questo non già nel dubbio che Pola potesse essere consegnata agli jugoslavi, ma soltanto nello sforzo disperato di salvare il resto dell’Istria che era già sotto Tito.
Per aver confessato così il loro amore all’Italia, oggi, anzi allora, tutti erano obbligati ad abbandonare Pola; perché essersi dichiarati italiani era colpa sufficiente perché gli jugoslavi li buttassero tutti nelle foibe o li deportassero.
E così per l’Italia oltre la tragedia di perdere quella terra, c’era la tragedia di vederla snazionalizzata.
Tornai a Trieste, ed arrivò intanto la data della riunione dei Ventuno, cioè il 29 luglio, senza che mi fossi decisa a fare nulla.
Sentivo la repugnanza dell’attentato che volevo compiere, mi prese la speranza che i Ventuno potessero cambiare la decisione dei Quattro. Seguii lo svolgersi della conferenza dei Ventuno. Presto ebbi l’impressione che si trattava di una commedia. Le decisioni dei Quattro non si potevano toccare: invano il Sud-Africa, l’Australia, il Brasile, si battevano per una procedura giusta; quello che era stato deciso, doveva restare.
Attesi finché ebbi la certezza che questa enormità sarebbe stata compiuta.
Ai primi di ottobre speravo ancora che, essendo già stata sacrificata l’Istria, tutto potesse essere buttato a monte perché era difficile mettersi d’accordo sulla questione di Trieste. Svanì poi anche quella speranza. Fui molto vicina all’attentato alla fine della conferenza dei Ventuno.
Più profondo sentii in me il bisogno di ribellarmi perché l’ingiustizia di Parigi si riconfermava proprio nei giorni in cui si concludeva pure il processo di Norimberga. Là, i vinti venivano condannati perché non avevano rispettato i trattati internazionali, perché avevano negato la libertà ai popoli, perché avevano usato mezzi troppo inumani nel fare la guerra; ed a Parigi i vincitori ricalcavano le orme dei rei. Si sputava sulla Carta atlantica che aveva fatto sperare al mondo una nuova era. Ai giuliani si negava il diritto di esprimere la propria volontà. Con piena consapevolezza si consegnavano i miei fratelli della Venezia Giulia alle foibe, alle deportazioni, oppure si condannavano all’esilio. Una parte di essi poi, veniva, come ho già detto, condannata alla mostruosità della internazionalizzazione.
Non agii ancora. Un po’ per volta mi aggrappai alla speranza che l’O.N.U. ci potesse venire in aiuto. Fu inutile sperare anche questo.
Quando si iniziò l’esodo di Pola, mi recai là. Volli stare vicina ai miei fratelli di Pola, riviverne tutta la tragedia. Andai al Comitato esuli; fui messa proprio all’ufficio informazioni dove mi fu possibile intendere tutta la grandezza e la disperazione dell’umile popolazione polesana. Sentii quanto erano fieri e modesti; quanto erano forti e delicati. Speravo ancora di non dover agire. Se il mio governo non avesse firmato, la sua protesta contro l’ingiustizia dei Quattro Grandi sarebbe stata ben superiore all’azione di un solo individuo. Il mio governo firmò. Il popolo italiano, se non avesse firmato, sarebbe stato affamato.
Fu necessario, allora, esprimerne l’anima.
DIFESA: Perché non ha agito contro Quattro Grandi?
PASQUINELLI: Mi era impossibile raggiungere i Quattro, ma se anche li avessi raggiunti, avrei avuto l’infinita amarezza di colpire degli innocenti.
DIFESA: Perché innocenti?
PASQUINELLI: I Quattro, come tutto il popolo inglese, americano, francese, russo, io sento, avevano creduto di combattere per la libertà e la giustizia. Ed a questo avevano creduto, infinitamente più di tutti, quegli italiani che si erano schierati con loro; quegli italiani che per questo idealismo erano arrivati al punto di colpire i loro fratelli.
Direi che è fatale che ai tavoli della pace si tradiscano sempre gli idealismi, che insieme agli interessi economici, spingono i popoli a combattere. Per l’idealismo combatterono i nostri ex nemici; per l’idealismo combattemmo noi pure. Oggi i vincitori hanno l’amarezza di veder tradita la bandiera per la quale hanno combattuto; direi che, se la sorte degli oppressi non comportasse la rovina della Patria, sarebbe da preferirsi a quella dei vincitori.
Voi, però, nella vostra amarezza, avete il conforto di non vedere in rovina la vostra Patria.
Noi altri abbiamo la disperazione di vedere la nostra Patria in rovina; per questo sentii il dovere di protestare.
Se avessi potuto avrei colpito i Quattro Grandi, ma con l’amarezza che a loro volta erano vittime di una fatalità, simbolo però dell’ingiustizia commessa nei confronti della mia terra.
DIFESA: Vuol dirci dei suoi precedenti remoti. Quando si è diplomata, che vita ha trascorso, le pratiche a cui di preferenza si è data, l’assistenza ai bambini?
PASQUINELLI: A diciassette anni mi sono diplomata insegnante elementare. Per dieci anni mi dedicai all’insegnamento con passione, amando profondamente i bambini.
Contemporaneamente frequentai l’Università e mi laureai in pedagogia. Nel 1933, spontaneamente, mi iscrissi al Partito Fascista, al quale restai iscritta fino al 25 luglio 1943.
Credetti nel Fascismo, l’amai, perché attraverso il Fascismo pensavo si potesse raggiungere la grandezza dell’Italia. Appartenni alla Scuola di mistica fascista, dal 1939 al 25 luglio 1943. Mi attrasse ad essa questo suo insegnamento: «L’unico diritto del fascista è quello di compiere per primo il sacrificio e il dovere».
Quando scoppiò la guerra sentii il bisogno, per essere coerente all’amor patrio che a parole mi ero sempre sforzata di infondere nei miei alunni, di partecipare come potevo alla guerra, stando vicina al soldato che per la Patria più si sacrificava. Perciò divenni crocerossina e partii per il fronte dell’Africa Settentrionale.
DIFESA: Perché è venuta via di là?
PASQUINELLI: Dopo essere stata infermiera, per sette mesi, dopo aver compresa tutta la grandezza del soldato italiano, che, in istato di assoluta inferiorità combatteva contro gli inglesi, allorché sentii imminente la seconda ritirata, vedendo partire per il fronte i miei soldati feriti, con le ferite non ancora rimarginate, con le dita smozzate, e questo perché, non si avevano possibilità di sostituirli, avvertendo la loro grandezza nell’essere pronti a ripartire, e nello stesso tempo la loro amarezza perché sentivo che mancava in loro una forza ideale; (eppure a me pareva che il sacrificarsi per la propria terra avrebbe potuto essere motivo sufficiente per sentirsi fieri); sentii che non avevo il diritto di infondere loro coraggio se non avessi condiviso la loro sorte, e solo per essere vicina a loro nel supremo pericolo, per poter infondere loro coraggio, perché la stessa fine può essere fatta da vittima o da eroe, – è tutto questione di coscienza – perché potesse anche uno solo morire sereno nel sacrificio che compiva per la sua terra, mi travestii da soldato, mi feci tagliare i capelli e cercai di raggiungere il fronte. Con me recavo una scritta nella quale si poteva leggere: «Bimbi d’Italia con voi, per voi!». Io sentivo Che nel nostro esercito cominciavano i sintomi di una scissione fraterna che mi straziava. Sia da una parte che dall’altra riconoscevo dei torti e delle ragioni; torti e ragioni che qui non esprimo perché sono di fronte ad una Corte straniera.
Volli però che almeno i bambini d’Italia non restassero delusi sapendo che gli insegnamenti loro impartiti dai maestri erano stati onesti e puri.
Fui riconosciuta dopo aver compiuto circa 600 km., credo, fui rimpatriata ed espulsa dalla Croce Rossa Italiana per indisciplina. Ebbero anche ragione di espellermi.
Appena tornata cercai di essere inviata in Dalmazia, quale insegnante. Fui comandata a Spalato quale professoressa di italiano nelle scuole medie croate.
Avvertii il tormento dei giovani croati, i quali credevano che quella terra fosse loro; li ammirai, ma non dubitai neppure un istante dei diritti dell’Italia su quella terra. La Dalmazia era stata italiana come Pola, come la costa istriana. Se fra qualche anno noi si potesse ritornare nell’Istria non sarebbe certo motivo sufficiente la snazionalizzazione forzata, per affermare che quella terra non appartiene all’Italia.
Riconosco che l’annettere all’Italia la Dalmazia prima della fine della guerra fu senz’altro un errore.
L’8 settembre, l’esercito italiano consegnò le armi ai partigiani slavi. Noi restammo in balia dei partigiani. Centosei italiani civili, fra cui il mio provveditore, un preside e diversi colleghi, furono trucidati con il colpo alla nuca nelle fosse del cimitero di Spalato. Contemporaneamente i tedeschi con gli Stukas mitragliavano i nostri soldati raccolti sul Monte Mariano. L’Inghilterra, nella quale il nostro esercito nel cedere le armi aveva creduto, non faceva niente per noi.
Scomparvero i partigiani al ritorno tedesco. Non si avevano notizie dei centosei italiani scomparsi dalle carceri di Spalato. Si vociferava che fossero stati fucilati nel cimitero di S.Lorenzo. Molti fra quegli italiani erano dalmati. Sentii il dovere di indagare sulla loro sorte.
Era necessario consacrare alla storia d’Italia il nome di quei martiri che avevano scritto l’ultima tragica pagina di storia italiana in Dalmazia.
Era necessario togliere le famiglie di quegli eventuali caduti (io ancora non ero certa che fossero caduti) dall’eterno, inutile straziante tormento dell’attesa.
In fondo al cuore, nonostante tutte le prove contrarie, che giustificavano i peggiori presagi, io volevo illudermi che, aperte le fosse di Spalato, tante persone scomparse, fra cui il mio provveditore, il preside, i colleghi, non vi si trovassero, per poter conservare l’illusione che fossero ancora vivi.
Purtroppo furono aperte le fosse ed in esse riconobbi gli scomparsi.
DIFESA: Come ottenne il permesso?
PASQUINELLI: Il permesso lo ottenni, contro la volontà del governo ustascia, dal governo tedesco, attraverso la Direzione di sanità italiana che godeva la benevolenza di certi ufficiali tedeschi operati da medici italiani. I tedeschi acconsentirono all’esumazione dei morti, ma se ne disinteressarono lasciando il compito alla 19ª Sezione di sanità italiana. I nostri soldati, privi di disinfettanti, senza maschere, senza guanti, al cimitero, che, distava dalla città sei km, apersero le fosse e per tre giorni consecutivi amorosamente scrutarono ogni cadavere per rilevarne tutte le caratteristiche.
PRESIDENTE: Quando furono fucilati?
PASQUINELLI: Furono fucilati il 18, il 21 e 23 settembre 1943. L’esumazione avvenne un mese dopo, cioè in .ottobre.
PRESIDENTE: Allora quel reparto sanitario collaborava con i tedeschi?
PASQUINELLI: No, non è vero. Erano prigionieri, tanto che poi furono portati a Trieste.
I tedeschi acconsentirono alla esumazione anche perché fra i fucilati vi erano due o tre tedeschi. L’esumazione fu voluta ed ottenuta da me. Assistetti a tutta la esumazione.
PRESIDENTE: Quella zona era controllata dal governo tedesco?
PASQUINELLI: Sì, ma era piuttosto controllata dal governo ustascia; i tedeschi si disinteressavano di tutto ciò, e gli ustascia si opponevano alla esumazione. Ciò perché gli ustascia logicamente erano prima anti-italiani che anti-partigiani, perciò non ammettevano che si scoprissero le malefatte dei partigiani slavi nei nostri confronti.
Devo fare una precisazione.
L’esumazione dalla prima fossa fu fatta dal governo ustascia perché, sapendo gli ustascia che nella prima fossa c’erano sei morti ustascia, ci tenevano ad estrarli per dare loro degna sepoltura. Una volta finito quel lavoro, che hanno tentato di fare all’insaputa degli italiani, senza però riuscirvi, avrebbero voluto che non fosse proseguita l’esumazione.
Fu precisamente al cimitero di Spalato, di fronte ai centosei italiani fucilati dai partigiani slavi, accanto ai quali erano sepolti i trecento uccisi dagli Stukas tedeschi, che io capii che quando un popolo si divide è destinato solo a fare concime.
Trovai i miei superiori nelle fosse.
Avendo finito il mio compito, minacciata di morte per aver svolto tale lavoro, insieme al collega che mi era sempre stato vicino, il prof. Camillo Cristofolini, clandestinamente mi imbarcai su una nave, proveniente dell’Albania e che era entrata nel porto di Spalato per depositare i morti ed i feriti che aveva a bordo in seguito ad un attacco aereo inglese.
In un primo tempo i tedeschi avevano rifiutato agli italiani di imbarcarsi su quella nave; ritengo perché ritenevano troppo pericoloso per dei civili partire con quella nave; ciò nonostante il mio collega ed io riuscimmo clandestinamente a salirvi. Quando all’alba ci staccammo dal porto di Spalato, la nave fu colpita da cannoneggiamento partigiano croato compiuto dalle coste delle isole. Avemmo a bordo venti morti e quaranta feriti, fra i quali il mio collega Cristofolini morto.
Giunta a Trieste, dopo qualche giorno che sostavo in questa città cominciarono a comparire sui giornali le notizie sull’infoibamento del 1943. Capii che lo stesso tragico destino della Dalmazia gravava sull’Istria.
Non ho mai creduto che si trattasse di fenomeno comunista contro il Fascismo in Istria; per me si trattava senz’altro di panslavismo, di movimento di imperialismo slavo che si compiva con metodo etnofogo, cioè distruttore della razza contrastante alle sue mire imperialistiche.
PRESIDENTE: Quale razza?
PASQUINELLI: L’italiana, e non soltanto l’italiana, ma contro la razza latina. Io non lo vedo soltanto contro l’Italia, ma contro tutta l’Europa occidentale.
Il popolo slavo si esprime secondo la sua possibilità; è un popolo giovane che ha tutte le doti e i demeriti dei popoli giovani, crede sino al fanatismo nella sua fede. La possibilità di critica, che è caratteristica dei popoli vecchi, e che è caratteristica particolare del popolo italiano, per loro non esiste.
Debbo riconoscere, per essere stata molto vicina agli slavi, che accanto a questa loro infinita crudeltà, sono anche, a volte, infinitamente generosi. Soltanto tra gli slavi, come ho potuto constatare, c’è la possibilità di avere nello stesso individuo l’estremo della bontà e, direi, della perfidia.
Appena tornata dalla Dalmazia mi dedicai alla questione giuliana. Però mi interessai anche di osservare il problema generale di tutta l’Italia. Vidi come gli italiani erano divisi in due fronti.
I migliori fra i miei compagni avevano preso posizione trascinati da motivi idealistici. Da una parte si combatteva per la libertà e la giustizia, dall’altra per l’onore.
Il popolo italiano è infinitamente idealista.
Se è vero che la fede è caratteristica dei giovani, direi che il mio popolo, nonostante la sua vecchiezza, è inesauribilmente giovane.
Io non presi posizione con nessuno e mi ripiegai esclusivamente sulla questione giuliana agendo come italiana. Non fui più fascista. Lo dico perché è vero. Non ho mai rinnegato nessuna mia fede.
Mi accorsi che i tedeschi occupanti la Venezia Giulia avevano il proposito, qualora avessero vinto, di strapparla all’Italia. Non mi preoccupai eccessivamente di questo, perché non credevo nella vittoria tedesca. Invece vidi che il pericolo immenso per la Venezia Giulia consisteva in una avanzata slava conseguente il crollo tedesco. Questo avrebbe comportato nuove deportazioni di italiani, avrebbe comportato la snazionalizzazione di questa terra.
Dapprima mi preoccupai di formare nella Venezia Giulia e nel Friuli un baluardo italiano, il quale, al di sopra di ogni partito, agisse soltanto in funzione di italianità e si preoccupasse di contenere l’avanzata slava, dal crollo tedesco sino all’avanzata degli alleati.. Cercai per questo di stabilire contatti tra le forze armate italiane, partigiane e della repubblica di Salò. Ogni mio sforzo fu vano. Gli italiani ritenevano di fare il bene dell’Italia soltanto mantenendo assoluta fede agli stranieri.
Feci una relazione sul problema giuliano da inviare al governo del sud, perché autorizzasse il nord per questo blocco; lo consegnai alla «Franchi»…
PRESIDENTE: Perché autorizzasse che cosa?
PASQUINELLI :Perché autorizzasse questo blocco nella Venezia Giulia.
PRESIDENTE: Cos’era la «Franchi?».
PASQUINELLI: La «Franchi» era formata da ufficiali italiani paracadutati dal sud, e doveva stabilire i contatti fra le forze partigiane del nord e l’esercito italiano del sud.
Il giovane al quale consegnai la mia relazione fu imprigionato dai tedeschi e non so se la relazione fu poi consegnata.
Non mi arresi. Volli fare un ultimo tentativo.
Pensai di raccogliere, in un rapido viaggio nell’Istria, la documentazione dalla quale risultasse evidente che gli italiani non erano stati infoibati in quanto fascisti, ma in quanto italiani. Infatti nel 1943 si infoibarono perfino noti antifascisti i quali, sotto il governo di Mussolini, avevano fatto anni ed anni di prigione o di confino: classico caso quello di Lelio Zustovich, ad Albona. Egli non fu infoibato proprio nel 1943, ma subito dopo il 1943. Non si trovò in foiba, ma si sa che fu fatto scomparire. Eppure era la più pura figura di comunista dell’Istria.
Per poter viaggiare in Istria, che era zona di operazione, mi presentai al comandante Borghese della Xª Mas e gli dissi delle mie intenzioni di recare al sud la documentazione di cui ho parlato; perché se questa terra, era possibile salvarla, l’avrebbero potuta salvare soltanto le forze del sud.
Il comandante Borghese mi disse che facevo bene a fare questo tentativo, e personalmente mi fornì documenti italiani e tedeschi per viaggiare in Istria.
Io volevo portare la mia documentazione al governo di Bonomi, e speravo di poter concorrere con tale documentazione ad anticipare uno sbarco italo-anglo-americano in questa terra.
Non mi illudevo che l’Inghilterra e l’America sarebbero sbarcate per aiutare noialtri; non ho mai pensato che un popolo combattesse per fare gli interessi di un altro popolo. La tradizione storica mi ha dimostrato che nella politica internazionale ha sempre dominato l’egoismo e l’interesse. Però mi illudevo che l’interesse italiano coincidesse con quello anglo-americano nel conservare queste terre all’Italia. Perché queste terre sono un baluardo non solo italiano, ma di tutto l’occidente contro il panslavismo.
Mentre viaggiavo in Istria fui arrestata dalle S.S. tedesche. Il materiale lo salvai perché poche ore prima dell’arresto lo avevo consegnato ad una persona perché lo portasse a Trieste. Ai tedeschi non dissi dove si trovava. Fui trattenuta in prigione ventitré giorni e poi rilasciata con l’evidente intenzione di pedinarmi per vedere dove erano stati messi i miei documenti. Infatti ogni giorno avevo l’ordine di presentarmi al comando delle S.S. che non mi aveva restituito la carta di identità e gli altri documenti personali.
In uno dei miei ritorni alle S.S. tedesche, fui avvertita da un italiano, l’interprete professor Nicolini, di una nuova denuncia giunta contro di me alle S.S. tedesche.
Poiché anche quella mattina mi si lasciò uscire, di nascosto lasciai Trieste e raggiunsi la Lombardia l’11 aprile 1945. Là organizzai il materiale raccolto e stetti nascosta sino all’arrivo delle forze del sud.
Allora consegnai allo Stato maggiore dell’esercito italiano la mia documentazione.
Appena avvenuto il crollo della Repubblica fascista ed il crollo tedesco, nella Venezia Giulia avvenne esattamente quello che avevo previsto: gli italiani furono deportati dagli jugoslavi, in numero ben superiore a quello dei deportati del 1943, e non si trattava soltanto di fascisti, ma anzi, direi, in modo particolare, si infierì su quelli che avevano delle benemerenze antifasciste.
Mi preoccupai moltissimo anche quando mi avvidi che Trieste e Pola soltanto erano state occupate dalle forze anglo-americane. in questo riconobbi la caratteristica della politica imperialistica inglese, occupatrice di basi economiche e militari importanti.
Decisi di tornare senz’altro nella Venezia Giulia per seguire sino all’ultimo la questione giuliana. Usai uno stratagemma con il Ministero della istruzione italiana: mi feci mandare a Roma, poi rifiutai l’incarico e venni nella Venezia Giulia. Così Milano mi riteneva a Roma (perché io sono maestra a Milano) e Roma riteneva che fossi a Milano. Questo lo feci per poter usufruire dello stipendio.
Nella Venezia Giulia mi preoccupai di diffondere la conoscenza del problema giuliano in tutto il resto d’Italia. Feci una scelta di tutti i giornali di qui che trattavano meglio la questione giuliana, e poi per mezzo di esuli istriani li feci recare ai giornalisti di tutti i capoluoghi delle provincie italiane, affinché conoscendo fino in fondo la tragedia di questa terra, tutta la Madre Patria le fosse vicina nel momento del pericolo.
Intanto arrivò la Conferenza a Parigi, ed allora feci quello che ho fatto.
Ci tengo a dire che il mio atto di protesta è limitato alle questioni giuliane, ma ho sofferto per ogni lembo di Patria strappata all’Italia, sofferenza che forse soltanto noi italiani possiamo capire, perché soltanto noi abbiamo saputo trasformare delle sabbie sterili in territorio fertile a costo di infiniti sacrifici.
Il mio popolo non è un popolo di dominatori, ma è senz’altro un popolo mirabilmente civilizzatore. La sua sorte è quella di donare, e di ricevere poi dei durissimi colpi. Se della generosità del popolo italiano sono fiera, quando penso al destino che sempre grava sulla mia Patria, sento il bisogno che questo non avvenga più a costo di qualunque azione.
DIFESA: Quando partì come Crocerossina al fronte, aveva intenzione di combattere?
PASQUINELLI: Volevo soltanto compiere il mio dovere di Crocerossina in linea assistendo i moribondi al fronte. Mi ero sempre ritenuta fortunata di essere una donna, perché mi pareva che mi fosse offerta la possibilità di dare la vita alla Patria senza togliere quella degli altri.
DIFESA: Quando fu in Dalmazia si limitò ad insegnare nella scuola, od ebbe altre attività?
PASQUINELLI: Insegnai anche ai giovani croati detenuti per reati comuni e per attività politica.
Io credo che la violenza sia una dura necessità alla quale qualche volta per la propria Patria ci si deve sottoporre. Ma il mio compito là era di far amare l’Italia soltanto attraverso l’amore ed il bene.
Entrai nelle carceri proprio per fare del bene, sebbene apparentemente insegnassi la lingua italiana. Ammirai moltissimo l’idealismo dei giovani croati; volli loro bene; credo me ne volessero. A Spalato insegnai anche ai soldati italiani analfabeti a leggere e scrivere. Anche ai minorenni croati insegnai a scrivere.
DIFESA: Ha il ricordo di qualche persona slava che si sia grandemente preoccupata di lei quando fu arrestata e si temeva della sua sorte?
PASQUINELLI: Io dissi che soltanto gli slavi sanno giungere a certi estremismi di bontà e di ferocia. Quando fui ricercata per essere imprigionata, ci fu una persona slava che, pur sapendo delle severe minacce gravanti sui croati che nascondevano gli italiani, mi supplicò piangendo perché accettassi un rifugio presso di lei.
Devo anche dire che durante il mio arresto ebbi dagli slavi prove commoventissime di bontà da parte loro. Posso citare un piccolo episodio: quando un partigiano mi conduceva all’interrogatorio, io entrai in un edificio di fronte al quale della popolazione croata stava facendo una fila, non so per quale motivo. Io fui fatta passare dal partigiano davanti a tutti. La gente protestò ritenendomi una raccomandata; io mi rivolsi verso la folla e dissi semplicemente: «io non entro per il vostro motivo, passo per andare in prigione». Una donna croata che non conoscevo, in quel momento in cui tutto il popolo croato si sollevava contro di noi, che da loro eravamo ritenuti oppressori, questa donna, con un tono di infinita dolcezza esclamò «draga moia» (mia cara).
DIFESA: La sua padrona di casa come si chiamava?
PASQUINELLI: Non lo so.
DIFESA: Dopo l’8 settembre, appartenne alla Repubblica di Salò?
PASQUINELLI: No. Non aderii affatto alla Repubblica di Salò. Ripeto che questo lo dico perché è vero. Se vi avessi appartenuto lo direi. Io non rinnego mai nessuna mia fede.
DIFESA: Ho inteso che ha seguito una educazione religiosa. Come ha potuto superare questa sua convinzione religiosa, la sua educazione, per commettere un atto che è condannato oltre che dalla morale, da Dio: uccidere il proprio simile?
PASQUINELLI: Ragionai molto per cercare di risolvere il problema religioso. Pensai che nella Bibbia si parla di donne come Giuditta, come Giaele che furono omicide per l’amore della loro terra; pensai che opponendomi alla avanzata slava, in fondo, favorivo anche la questione religiosa. Ma non riuscii a dare soddisfazione al problema che sentivo fortissimo. Di fronte a Dio non ero rea solo di omicidio, ma eventualmente anche di suicidio. Sperai nella infinita misericordia di Dio, ma il problema rimase aperto.
Forse ho amato l’Italia anche più della mia anima.
DIFESA: Ha fratelli, sorelle? So che ne ha uno, che è gravemente ammalato e del quale ella è l’unica consolatrice.
PASQUINELLI: Non sono l’unica consolatrice. Sono la persona che ha più possibilità di aiutarlo. Ma non poteva fermarmi il problema della mia famiglia, quando per compiere il mio gesto eventualmente avrei potuto distruggere la famiglia di un altro.
DIFESA: Dove si trova questo fratello? Che malattia ha? Come l’ha contratta?
PASQUINELLI: È reduce dalla Germania; una tubercolosi ossea e si trova a Venezia.
DIFESA: Ha mai avuto in tutto il tempo della vita che ci ha raccontato nessun altro provento economico all’infuori del suo stipendio?
PASQUINELLI: No. Avrei potuto averne ma li ho sempre rifiutati.
DIFESA: Il suo stipendio, scarso com’è, è stato sufficiente ai suoi, bisogni? Ha fatto qualche opera? So che ha aiutato, assistito anche.
PASQUINELLI: Il mio stipendio non mi è mai apparso scarso; è stato sempre più che sufficiente.
P.M.: Questo piano che lei aveva elaborato nell’intenzione di colpire, era interamente una sua idea, personale?
PASQUINELLI: Sì, esclusivamente personale.
P.M.: Mai suggeritole da nessun altro?
PASQUINELLI: Mai.
P.M.: Ha mai fatto parte ad altre persone delle sue intenzioni?
PASQUINELLI: No.
P.M.: Nessuno era a conoscenza di quanto lei stava per fare?
PASQUINELLI: Nessuno.
P.M.: Ha tenuto sempre solo per sé la sua intenzione?
PASQUINELLI: Sì.
P.M.: Non ha mai avuto consiglio od aiuto da nessun altro?
PASQUINELLI: No.
P.M.: Quando ha trovato la pistola?
PASQUINELLI: Negli ultimi giorni di aprile. Una sera rincasando a Milano, abitavo in via Sardegna n° 48, la trovai nei pressi della mia abitazione. In Piazza Sicilia, vicino a casa mia, funzionava, in quei giorni, un tribunale partigiano.
P.M.: Nel 1945?
PASQUINELLI: Sì.
P.M.: Aveva allora delle idee di fare del male a qualcuno?
PASQUINELLI: Avevo intenzione di venire nella Venezia Giulia. Pensai che mi avrebbe potuto servire di difesa.
P.M.: Contro chi?
PASQUINELLI : Sapevo che qui c’era tutta la tragedia della occupazione slava…
P.M.: Credeva che poteva venire attaccata da qualcuno?
PASQUINELLI: Siccome ero decisa di venire qui a difendere la mia terra, pensavo che di me gli slavi avrebbero potuto avere informazioni, anzi le avevano, e perciò ritenni che la rivoltella avrebbe potuto essermi utile, anche perché non sapevo, stando a Milano, la vera situazione ch’era qui nella Venezia Giulia. Venuta qui vidi che era stato un pensiero perfettamente inutile.
P.M.: Allora aveva nessuna idea di usarla in danno di altre persone?
PASQINELLI: No.
P.M.: Lei sa quindi che commette reato chiunque possiede un’arma?
PASQUINELLI: Sì.
P.M.: E ciononostante lei detenne quell’arma?
PASQUINELLI: Sì.
P.M.: Quando lei commise quell’atto dinanzi al quartier generale, lei si era attesa una sparatoria dalle guardie?
PASQUINELLI: Nel momento in cui colpivo capii che il mio pensiero precedente, che le guardie cioè dovessero agire, era stato assurdo. Il fatto che io agivo di sorpresa li doveva portare a fare normalmente quello che hanno fatto. Soltanto una persona coraggiosissima anche per istinto come il generale, nonostante fosse ferito, nonostante fosse disarmato, poté reagire cercando l’attentatore.
P.M.: Allora si rendeva conto che le guardie erano sprovviste di munizioni?
PASQUINELLI : No, non sapevo che fossero disarmate. Lo apprendo appena adesso.
P.M.: Si era resa conto che una pallottola aveva raggiunto un soldato?
PASQUINELLI: No. Me l’hanno detto durante l’interrogatorio, tanto è vero che io fino a ieri ebbi il dubbio che la persona vista nel corpo di guardia fosse il generale, mentre invece era il soldato ferito.
P.M.: Asserisce allora lei che non sapeva di avere effettivamente colpito un membro delle guardie?
PASQUINELLI: No, non l’ho mai saputo fino a che non mi hanno interrogato.
P.M.: Si era resa conto che dopo i colpi sparati da lei, quella guardia prestava aiuto al generale?
PASQUINELLI: Io vidi entrare il generale nell’atrio del comando; se non erro, prima di lui entrarono le guardie. Anzi di sicuro, perché lui camminava da ferito; io penso che le altre guardie rimaste dentro siano rimaste dentro per quello. Adesso che mi si dice che erano anche sprovviste di munizioni capisco perché non venivano fuori. Ma, come detto ieri, avevo potuto vincere la repugnanza che sentivo per la viltà che c’è sempre in un attentato, appunto perché ero fermamente convinta di sparare di fronte a degli armati.
P.M.: Ha mai incontrato il generale De Winton?
PASQUINELLI: L’ho intravisto durante il presentat’arm avvenuto il martedì precedente il 10 febbraio.
P.M.: Cosicché lo conosceva soltanto da una certa distanza?
PASQUINELLI: Da una certa distanza, soltanto dalla riga rossa sul berretto.
P.M.: Non lo conosceva affatto?
PASQUINELLI: No, mai visto o parlato.
P.M.: Cosicché non aveva nessun motivo personale per volergli causare del male?
PASQUINELLI: No.
P.M.: Nel momento che ha commesso quel gesto, era pienamente consapevole di quel che faceva?
PASQUINELLI : Sì.
P.M.: Era pienamente consapevole delle conseguenze che potevano risultarle?
PASQUINELLI: Sì.
UN GIUDICE: Che cosa si proponeva di raggiungere e di ottenere con quel gesto?
PASQUINELLI: I motivi per i quali l’ho compiuto sono chiaramente espressi nella dichiarazione che portavo con me. Al presente non mi potevo aspettare altro.
PRESIDENTE: Quante di quelle lettere ha scritto?
PASQUINELLI: Ne ho scritto una che portavo con me, perché ritenendo come ho detto, di poter rimanere morta sul colpo, volevo si sapessero i motivi che mi vi avevano spinta. Siccome questi motivi desideravo sapessero anche gli italiani, la mattina stessa del 10 febbraio, quando andai come andavo quasi ogni mattina ad assistere alla partenza della nave da Pola verso Trieste, consegnai ad uno sconosciuto due lettere da imbucare a Trieste, una per i Volontari Giuliani, un’altra per il Gruppo Esuli Istriani. Non so se queste lettere siano arrivate. Là, vi era una copia della stessa lettera.
Arringa del difensore
avv. Luigi Giannini
La Corte ha riconosciuto colpevole Maria Pasquinelli di omicidio premeditato; ora è in discussione il grado della responsabilità e la ammissibilità o no di attenuanti.
È sicuro che queste sono subordinate agli intendimenti dell’imputata ed alla tragicità dell’ambiente in cui ha vissuto fino al momento del fatto.
Quale era questo ambiente?
Quale il momento storico che stava svolgendosi quando Maria Pasquinelli uccise?
La data sintetizza tutto: 10 febbraio 1947.
L’Italia è prona; il suo governo impotente; incombe lo spettro della fame e di incalcolabili sovvertimenti… e il diktat durissimo è ufficialmente sottoscritto a Parigi.
Gli italiani, che nella loro stragrande maggioranza non si erano mai sentiti nemici degli anglo-americani, espongono la bandiera a mezz’asta.
È la reazione di tutto un popolo, ferito nel cuore e nell’onore.
A Pola sul volto dei radi passanti è lo sgomento, e le piazze, le strade, tutte le cose testimoniano lo squallore e la desolazione.
Davanti a una caserma la guardia schierata della guarnigione anglo-americana presenta le armi ad un generale.
Sono dell’esercito che ha combattuto per la libertà dei popoli e per il loro affrancamento da ogni timore.
Al Generale il destino ha commesso di incarnare a Pola, nella città moribonda, la inflessibile volontà dei Quattro Grandi, dominati anch’essi e sconvolti, forse, da una forza infinitamente più grande di loro.
Nel silenzio attonito gli ultimi cittadini e quelli che vi sono giunti affannati dall’Istria vanno ai centri di raccolta, vanno con le loro poche robe, con le reliquie dei morti, con l’incommensurabile carico delle memorie e della disperazione e guardano se dal mare giunga la nave che li porti all’Italia, come bambini a piangere nel grembo della Madre.
Il Generale straniero la respira e la sente quella cupa e tormentosa aura di desolazione e, forse, deve raffrenare l’ impulso della umana solidarietà.
Ma ad un tratto echeggiano schianti di arma da fuoco; Egli è colpito una, due, tre volte a bruciapelo, alle spalle; il cuore gli è trafitto. In un supremo impulso di innata fierezza tenta di voltare il petto donde gli giunge l’offesa, ma la morte è già lì e già la bandiera della Patria avvolge la vittima dell’ananke spietata.
Alla sua memoria largo e perenne tributo di profondo compianto.
Sulla strada una fragile donna, sola con la sua arma, attende… Attende, sbigottita che non le giunga ancora, non sa ella stessa di dove, la sua morte carnale.
Sul delitto nessuna incertezza, né sui motivi che l’hanno causato.
Compito nostro è lo spiegarlo, l’inquadrarlo nell’anima della folla, nella psicologia dell’imputata, nel torbido e angoscioso momento politico che attraversa il Paese.
Chi è Maria Pasquinelli?
Una donna la quale ha avuto sempre e in tutti i sensi comportamento lodevole, vita dura ed austera, ineccepibile e proba.
Nessuno può fare accenni malevoli non solo sui suoi precedenti penali, ma neppure su quelli etici individuali.
Se noi qui potessimo chiamare a raccolta le persone che con lei hanno vissuto durante tutta la sua dura carriera di insegnante, sarebbe un coro di ammirazione e di elogi. Ove ella non fosse stata presa dal fervore patriottico, che è la nota più alta della nobiltà della sua vita, se ne parlerebbe come di una maestra eccellente, madre spirituale dei bambini affidati alle sue cure, che, avendo sentito come una missione il suo insegnamento, era restata volutamente sorda ai sorrisi della giovinezza, alla seduzione della gioia, al desiderio di formarsi una famiglia propria.
Taluno ha voluto identificare la psicologia della Pasquinelli con quella propria dell’egoismo; vedere nel complesso delle sue azioni degli infelici tentativi di autorivendicazione, di esibizionismo, di affermazione perenne della propria personalità.
È forse necessario esaminare minutamente la esistenza della Pasquinelli per dimostrare che i fatti costituiscono la più evidente smentita a questa incauta affermazione?
Se il compiere con sacrificio proprio ciò che si crede un dovere è egoismo perché soddisfa l’innato bisogno delle anime a raggiungere la propria perfezione morale; se è egoismo sacrificarsi per gli altri anche perché il sacrificio, almeno per un animo cristiano, provoca un sentimento di fraternità e di dedizione che non manca di bellezza e, quindi, di intima soddisfazione; se l’identificare se stesso con la Patria in modo da sentirla come qualche cosa della propria personalità, sì che si giunge a vedere la propria felicità personale nella sua grandezza e la propria sventura nella sua sventura; se tutto ciò è egoismo anche Maria Pasquinelli è egoista.
Ma alla stessa stregua, sono egoisti i santi, gli eroi, i soldati che sul campo di battaglia si sacrificano per il proprio Paese; tutti quelli, insomma, che educano un ideale in se stessi, che ne traggono ragione di vita, che subordinano ad esso i propri bisogni animali.
Solo ci permettiamo di dire a questo non benevolo critico dell’imputata che nel linguaggio comune ciò si chiama da tutti altruismo. Se così non fosse, ogni bellezza morale sparirebbe dalla vita; e dovremmo per esempio considerare egoista, e quindi unicamente pensosa di sé, la suora di carità che corre il pericolo dell’infezione e della morte per soccorrere i malati cui porge la mano fraterna avendo lo sguardo rivolto al Cielo che ama.
Pertanto, energicamente protestiamo contro il tentativo, sia pure non voluto, di capovolgere la verità; di fare apparire Maria Pasquinelli profondamente diversa da quella che è stata e che è.
Solo le persone della sua altezza morale possono perseguire e raggiungere la nobiltà etica, che noi rispettiamo.
Se in lei vi fu eccesso, ciò avvenne per la eccellenza delle sue qualità: per questo suo continuo rifiutarsi ad una vita vegetativa, per il bisogno ardente di dare se stessa agl’ideali che per lei non erano solo rettorica o argomento di cultura, ma necessità dell’anima.
Se la Pasquinelli fosse stata una donna frivola, leggera, piatta di intelligenza, sollecita solo delle meschine necessità della vita, a quest’ora non siederebbe sul banco degli accusati, ma sarebbe considerata ciò che nel linguaggio corrente si chiama «una brava donna».
Mi rendo conto che, specialmente in un Paese sconfitto, dove fatalmente si avvicendano ideologie diverse, necessità economiche strazianti, lutti inenarrabili di famiglie mutilate – può sembrare quasi una stranezza il fatto di una donna che obbedisce all’imperativo del suo pensiero nazionale.
È spiegabile che un gran numero di persone sorrida di compatimento di fronte ad una donna la quale, senza autorevolezza veruna, immagina facile ricongiungere in una passione comune gente ormai divisa dalle atrocità della guerra civile; ma esse giudicano così perché sono piccole ed in ginocchio: se sollevassero il viso dalle miserie della terra per fissare il loro sguardo nel cielo; se abbandonassero quella loro piatta psicologia da Sancio Panza in cui si riassume il filisteismo incomprensivo della maggioranza dei viventi, si accorgerebbero forse che sognare è il modo migliore di vivere e che va capovolta la frase celebre di Calderon de la Barca per cui «la vita è sogno», essendo di gran lunga più sicuro e più vero che «il sogno è vita».
Ogni umana creatura ha il suo destino: quello di Maria Pasquinelli è consistito nel dover essere sopraffatta dal suo amor di Patria; per questo ha superato dissidi di partito, questioni di tessere, ottusità di opposte fazioni.
Quando ci si parla di una Pasquinelli fascista come se si trattasse di un gerarca ambizioso ed avido, di una persona succube, di un soggetto invaso da vanità carrieristiche o da sete di denaro, si è ingiusti e, più ancora, ciechi, perché ci si dimostra inetti a distinguere la forma dalla sostanza, il mezzo dal sentimento, la contingenza occasionale dal fine.
«Dopo il 25 luglio fui dell’Italia soltanto», essa vi ha detto. E questa sua appartenenza esclusiva, questa sua dedizione completa all’Italia vi hanno confermato testimoni di opposte fedi, che la Pasquinelli hanno veduto operare, hanno ascoltato implorare per l’Italia.
Che colpa ha mai avuto la Pasquinelli se ha attribuito agli altri il suo animo?
Perché avrebbe dovuto rinunciare alla speranza che italiani, i quali dicevano di sacrificarsi e di uccidere gli uni per l’onore, gli altri per la libertà del proprio paese, si accorgessero finalmente che un lembo della terra comune stava per morire, che un atroce destino incombeva sulle genti istriane, che il calcolo politico stava per sopraffare la loro passione?
Qui veramente è il tragico errore della Pasquinelli: di avere considerato gli uomini come lei li avrebbe voluti, come i ricordi della storia del Risorgimento le suggerivano dovessero essere e non quali, purtroppo, sono in realtà.
E tuttavia, qui è anche la nobiltà di Maria Pasquinelli! Non ha la seduzione del genio; non brilla per bellezza; non si è mai trovata in una posizione sociale eminente; non ha lasciato orme profonde nella vita intellettuale, anzi, non ne ha mai avuta neppure la aspirazione e l’orgoglio; socialmente, più che modesta, è piccola, ma la illumina, comunque il suo atto si giudichi, la sua straordinaria capacità di sacrificio, per cui la sua gioia è nel piegarsi sugli altri; la sua attrazione, nell’aiutare il dolore; la sua vera fraternità nell’incoercibile necessità di servire.
Sappiamo bene che molti eminenti personalità della storia non hanno la struttura psicologica della Pasquinelli, ma la grandezza che le è stata rifiutata dalla natura se l’è conquistata ugualmente, perché vi sono eroismi dell’anima che permettono anche all’umile per natali di fare della propria vita un capolavoro ed un esempio: tale essa avrebbe potuto essere ove non avesse dovuto piegare sotto la sventura di Pola.
Che bisogno aveva ella mai di recarsi in Africa, di cercare le prime linee, non ad esercitare violenza, ripugnante al suo animo femminile, ma ad offrire un crocefisso, a illuminare i moribondi con la fede che il loro martirio non sarebbe stato vano, con la certezza che la Patria li benediva e non li avrebbe dimenticati? «Si può morire da vittime o da eroi» dice Maria .Pasquinelli «solo la coscienza può nobilitare il sacrificio».
Perché abbandonò la quiete della sua scuola per recarsi nella tormentata città dalmata?
Chi la costrinse, anche qui, fuori da ogni cautela, verso le fosse comuni, a dissotterrare cadaveri, a sopportare il contatto con l’orribile morte, il cui volto non è augusto, come ci racconta la piccola letteratura, ma è sfatto, decomposto, ripugnante per ogni essere umano?
Vi sono persone che portano nel fondo dell’animo un inesausto bisogno di bene; la Pasquinelli è tra queste.
«Senza di lei, non avremmo saputo nulla dei, nostri Morti», ha detto la vedova del Preside Luginbhul; e questa frase, piena di gratitudine, basterebbe a dimostrare quanto erroneo e falso sia il giudizio di coloro che hanno voluto adombrare le azioni di lei come dettate dall’egoismo.
È una tendenza insopprimibile ed eterna, è il dono affascinante ma pericoloso che ci fa Iddio con il fanciullino socratico di cui parla Platone; fatalità a cui questi eletti non possono sottrarsi mai, che scontano con la loro personale sventura.
La folla, la quale troppo spesso è composta di singole individualità di per sé crudeli, vili, pronte al servire, preoccupate solo della loro contingente vita animale, quando sia invece interrogata come collettività, dimostra una comprensione, un intuito politico, una conoscenza dell’animo altrui che di gran lunga sorpassa il piccolo calcolo furbesco di coloro che se ne fanno un Dio e che lo servono in ammirazione di se stessi senza accorgersi quanto ciò li rende incomprensivi e ciechi.
Crede, forse, la Corte che la folla non deprechi oggi la morte del generale De Winton?
Sicuramente no; eppure la folla è solidale con Maria Pasquinelli.
Crede forse la Corte che queste donne del popolo, le quali, lasciando la sala di udienza ogni volta salutano affettuosamente l’imputata, che pur non conoscono, con il suo nome, come se la lasciassero in una casa ospitale, con la dolce maniera veneta di «Ciao Maria», non abbiano viscere di madre, non siano profondamente rispettose del dolore della vedova lontana, non sentano pietà per la vittima?
Se così credesse, la Corte errerebbe; la solidarietà della folla con la Pasquinelli non esprime una xenofobia, estranea all’anima italiana, un odio latente verso l’esercito di occupazione, il soddisfatto istinto di vedere colpita la divisa dell’esercito di un altro paese. La folla ha una ragione sua la quale supera antinomie personali, norme etiche consuete, imperativi di codici, ammonimenti di religione, fatica di educazione.
In questo, veramente, la Pasquinelli e la folla che la ama oltrepassano la psicologia del delitto politico.
Certamente ci troviamo giuridicamente di fronte ad un tale delitto; ma nella specie noi individuiamo caratteri che differenziano l’atto della Pasquinelli da quelli che siamo abituati a chiamare così. Esempi anche recenti ci dimostrano infatti che troppo frequentemente il delitto politico è basato solo su personale vanità, su rischio connesso ad uno sperato vantaggio politico individuale.
Nulla di questo nel caso in esame.
Elisabetta d’Austria incontra nella pace del Lemano, ove nasconde il suo atroce dolore di donna, il pugnale dell’assassino; ma, neppure morta, la folla la circonda di pietà che non sente; il re serbo cade a Marsiglia, ma l’assassino che lo colpisce, nel giudizio della folla, rimane solo assassino, perché egli su quel cadavere fonda il proprio avvenire politico. A Sarajevo cade uno degli Absburgo, ma la folla non si prostra sulla vittima, se non altro, perché sente che dietro a lui sono forche non dimenticate dovute alla stessa sua casa, e perché intuisce che ben poca cosa è il sacrificio di un principe quando egli precede nella morte le innumerevoli vittime di una guerra da lui stesso auspicata.
Invece il delitto di Pola è senza odio, e pare uscito dalla oscura ananke, se in questa vogliamo vedere non tanto il cieco fato che conduce gli uomini, ma la voce che li richiama a leggi eterne e inviolabili.
La Pasquinelli e la folla, così, si comprendono perfettamente; sanno nettamente distinguere tra la pietà per l’uomo che cade ed il risentimento per una politica che reputano insana perché arida.
La Pasquinelli noli odia neppure gli slavi.
E come la Pasquinelli è la folla.
Chi nella sua vita non ha, di fronte a situazioni tremende, sentito che non si può rimanere fatalisticamente inerti, né lasciarsi trascinare dagli eventi e dal destino, e che invece una azione si impone?
Vogliamo forse noi rimproverare all’imputata questo stesso stato d’animo?
Eppure non dobbiamo dimenticare che ad esso fa riscontro un delitto gravissimo come è l’uccisione di un uomo.
Io, avvocato, non debbo essere tetragono all’ondata tumultuosa dei sentimenti che hanno animato ed animano la Pasquinelli e la folla; però, contemporaneamente, debbo riconoscere che vi è stata una offesa al diritto: debbo rendere il diritto comprensivo delle passioni, ma anche rendere le passioni comprensive della necessità del diritto.
RICORDIAMOCI DELLA PULIZIA ETNICA FATTA DAL CRIMINALE TITO, CHE ERA AMICO E SEGUACE DI CUBRILOVIC AL PUNTO DI FARLO SUO MINISTRO DELLA IUGOSLAVIA NEL 1946! LICIA RASONI
Rosario Bentivegna
Franco Calamandrei
Carla Capponi
Carlo Salinari
Pasquale Balsamo
Guglielmo Blasi
Francesco Cureli
Raoul Falciani
Silvio Serra
Fernando Vitagliano
Giorgio Amendola
Riccardo Bauer
Sandro Pertini
Elenco di persone che direttamente o indirettamente sono responsabili della strage di Via Rasella: considerati Patrioti
32 uomini altoatesini massacrati mentre tornavano da un’esercitazione
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Maria Pasquinelli: è un’eroina più di loro
CHE DIFFERENZE?
Maria Anna Luisa Pasquinelli
Il silenzio di una Patriota Italiana
…………………”Mio padre invece era marchigiano, di Jesi (Il padre aveva lavorato nei campi della grande guerra per recuperare le salme, che sarebbero andate a formare il sacrario di Redipuglia e lei spesso lo seguiva)”
Maria Pasquinelli, simbolo di tutta la sofferenza, l’amarezza, la rabbia degli esuli istriani,
fiumani e dalmati.
Onore a Maria Pasquinelli
Il 10 febbraio è stato scelto quale “Giorno del Ricordo” dell’Esodo giuliano, istriano e dalmata, e della tragedia delle Foibe, con la legge 30 marzo 2004 approvata dal Parlamento italiano con voto quasi unanime. Si tratta di una data non casuale, perché il 10 febbraio 1947 venne firmato il “diktat” imposto all’Italia dai 21 Stati “vincitori”: come è stato autorevolmente riconosciuto, anche da parte di Benedetto Croce, si sarebbe potuto evitare la firma, al pari della ratifica sopravvenuta nel breve termine, ma gli effetti non sarebbero stati diversi, in specie per il sacrificio di Istria, Fiume e Zara, col rischio di aggiungervi quello di Trieste.
Molti non ricordano o non vogliono ricordare che in quello stesso giorno il plumbeo mattino di Pola, su cui gravava una pioggia gelida come le partenze del “Toscana” con i suoi dolenti carichi di profughi avviati verso l’esilio, fu sconvolto da tre colpi di rivoltella: quelli con cui Maria Pasquinelli mise a segno l’estrema protesta della sua gente, indirizzandola nei confronti del Gen. Robert De Winton, comandante della piazzaforte locale e simbolo sia pure incolpevole della miope insipienza etica e politica con cui i Quattro Grandi ed i loro corifei avevano cancellato le residue speranze italiane.
Quel giorno, Indro Montanelli si trovava a Pola come inviato speciale del “Corriere della Sera” sulle cui colonne sarebbero usciti diversi servizi, puntuali ed obiettivi, circa la tragedia dell’Esodo. Il grande giornalista ebbe la ventura di essere tra i primi a comunicare la notizia del gesto di Maria, documentandone le reali motivazioni suffragate dalla dichiarazione olografa che le fu trovata addosso: anzi, toccò proprio a Montanelli confutare talune interpretazioni di fantasia tanto affrettate quanto infondate, a cominciare da quelle secondo cui avere colpito De Winton sarebbe stato un frutto di non meglio specificate provocazioni, se non addirittura un “delitto passionale”.
All’epoca, Maria aveva 34 anni, essendo nata a Firenze il 16 marzo 1913, e si era già distinta per azioni di alto patriottismo volontario, compiute in Africa accanto ai soldati nella sua qualità di crocerossina; e poi in Dalmazia, dove aveva chiesto di essere destinata a svolgere la consueta attività di insegnante che vi avrebbe intrapreso nel 1942, e dove si era fatta premura di collaborare ad opere meritorie come l’esumazione di oltre cento Vittime italiane dei tragici fatti occorsi dopo l’armistizio del 1943, in modo da sottrarle all’estremo oltraggio delle fosse comuni ed avviarle all’onorata sepoltura. In questo, era figlia d’arte, perché da ragazza aveva collaborato con il padre nella sistemazione del Sacrario di Redipuglia, compiuta nello scorcio finale degli anni trenta.
Durante gli ultimi mesi di guerra, ben comprendendo il tragico destino che incombeva su Venezia Giulia e Dalmazia, si era impegnata nell’impossibile tentativo di costituire un fronte comune antislavo composto da Regno del Sud, Repubblica Sociale e CLN, destinato ad abortire in partenza perché gli Alleati, assieme al Governo Badoglio ed alle forze partigiane, avevano già preso accordi irreversibili con Tito. Nell’immediato dopoguerra fu ugualmente attivissima, prima a Trieste e poi a Pola, come assistente degli Esuli, sia in ordine alle faticose incombenze burocratiche, sia nella prioritaria ottica psicologica: le testimonianze sono state concordi nel riconoscerne l’altruismo e la sensibilità. Furono questi stati d’animo, fatti di forti emozioni e di commossa partecipazione al dramma di un intero popolo, a suscitare nel cuore di Maria l’idea di esprimere la protesta di tutti con un gesto capace di coniugare il nobile sentire ed il forte agire.
Maria Pasquinelli, levando alto e chiaro il suo grido di dolore, ha preso ad esempio la “maschia Giaele” di manzoniana memoria, l’urlo di Antigone contro l’ingiustizia istituzionalizzata di Creonte, il coraggio giovanile di Carlotta Corday nello “spegnere” un tiranno sanguinario e crudele che aveva trovato di che vivere nel nuovo mestiere di rivoluzionario; così facendo, si ergeva ad interpretazione solitaria e drammaticamente contemporanea dell’antitesi fra un potere cieco, quasi sempre auto-referenziale, e le “alte non scritte ed inconcusse leggi” in ricorrente contrasto col diritto positivo.
Come avrebbe detto Giovanni Botero, quello di Maria è certamente un “eccesso dal giure comune” ma non per vile appiattimento sulle esigenze della ragione di Stato: al contrario, per un “ethos” talmente superiore da rendere compatibile il delitto con la fede in quel medesimo Dio che tanto tempo prima aveva “guidato il colpo” di Giaele. Del resto, la Pasquinelli era immediatamente rientrata nell’alveo della legge “ordinaria” riconoscendo la propria responsabilità, affrontando con fermezza il giudizio della Corte alleata e rinunciando, secondo la testimonianza di Bruno Coceani, all’ipotesi di salvarsi tramite un’evasione bene organizzata. Anzi, dopo avere ascoltato la lettura della sentenza capitale da parte del Presidente Chapman, Maria giunse al punto di esprimere ai suoi giudici la gratitudine per le “cortesie” che le erano state usate anche attraverso il suggerimento di firmare la domanda di grazia, assolutamente inutile perché lei non avrebbe potuto accettarlo.
La commutazione della pena in quella dell’ergastolo sopraggiunse a non lungo termine perché gli Alleati sapevano bene di non avere bisogno di una nuova Martire, che la fantasia popolare aveva immediatamente equiparato a Guglielmo Oberdan. Subito dopo, Maria venne affidata alla giustizia italiana che si sarebbe dovuta fare carico degli adempimenti carcerari e che la trattenne fino al 1964, quando col beneplacito degli Alleati decise di metterla in libertà. A quel punto, la Pasquinelli si trovò a più forte ragione sola con la propria coscienza e con un senso di viva religiosità già sviluppato nella prigione fiorentina di Santa Verdiana grazie ai colloqui con Don Giulio Facibeni, Cappellano della prima Guerra mondiale e fondatore dell’Opera Madonnina del Grappa, sin da allora in odore di santità.
Vale la pena di soggiungere che nei lunghi anni della detenzione Maria fu un vero modello, sia per il comportamento irreprensibile sia per il conforto, come sempre spontaneo e disinteressato, offerto ad altre condannate, tra cui Caterina Fort, la “belva di Via San Gregorio” protagonista di un fosco dramma della gelosia che aveva sconvolto, sempre nel 1947, l’Italia del dopoguerra.
Dopo la tragedia venne pubblicato un opuscolo con gli atti del processo, voluto da un gruppo di donne triestine (1). Poi, la storia di Maria è tornata alla ribalta nel 2008, in un lucido saggio del Prof. Stefano Zecchi (2) che alla stregua di un’alta esperienza cattedratica di filosofia ne ha percorso “ex-novo” la storia fino a sottolineare come la progressiva “escalation” di esperienze tanto drammatiche abbia dato luogo ad un atto che si potrebbe definire “necessitato”; infine, è uscito un contributo di Rosanna Turcinovich Giuricin (3), che muove da una breve e quasi surreale intervista all’ormai novantasettenne Maria per approdare ad un’apparente comprensione formale suffragata dal fatto che la Pasquinelli avrebbe ripudiato le antiche fedi di “mistica fascista” coltivate alla scuola “eroica” di Nicolò Giani, da cui erano usciti, fra gli altri, Uomini come Guido Pallotta e Berto Ricci.
Discutere oggi sulle scelte politiche di Maria appare piuttosto intempestivo se non anche impertinente. Negli anni trenta, quando pervenne alla laurea, le opzioni di chi aveva senso dello Stato ed elevata sensibilità patriottica, come un’ampia maggioranza del popolo italiano, erano scontate, mentre dopo l’otto settembre finirono per essere condizionate, in tanti casi, dalle situazioni contingenti: a questo proposito diventa strumentale oltre che poco significativo accertare se Maria avesse aderito alla Repubblica Sociale o se avesse voluto o dovuto decidere altrimenti. Ciò che conta sono i suoi comportamenti, che la indussero ad agire nel campo dell’onore, come dimostra la sofferta esperienza di Spalato;
ed a battersi, sia pure vanamente, per sollecitare Alleati, badogliani e fascisti a promuovere un’intesa per la salvezza della Venezia Giulia e dell’Istria e prima ancora per quella dei loro infelici abitanti, tanto da essere arrestata dai tedeschi che non potevano condividere la sua attività a tutto campo e la rilasciarono solo per l’intervento personale di Junio Valerio Borghese.
In questo senso, Maria Pasquinelli è stata un esempio insuperabile perché ha dimostrato di avere compreso fino in fondo quanto fosse essenziale, nei tempi duri dell’emergenza, anteporre l’interesse della Patria a quello delle fazioni ed a più forte ragione, a quelli delle persone: in concreto, il principio fondamentale dello Stato etico.
Il suo comportamento fu immune da atteggiamenti “fanatici” e non serve che qualcuno abbia scritto falsamente il contrario in altri giudizi di taglio giornalistico, quanto meno affrettati. Sempre disponibile, sorridente, idealista fin quasi all’utopia, sarebbe stata un’ottima insegnante ed una cittadina esemplare se non fosse diventata una Vittima della guerra al pari di Robert De Winton, la cui consorte, del resto, lo avrebbe ammesso qualche anno dopo come un segno del destino e senza resipiscenze vendicative.
Nel 1956 un fatto parzialmente analogo venne discusso in un altro celebre procedimento giudiziario a carico di Alfa Giubelli. Questa giovane signora, all’epoca ventunenne, aveva ucciso, evidentemente dopo lunga premeditazione, un partigiano comunista che nel frattempo aveva fatto carriera fino a diventare sindaco di Crevacuore, un Comune del Cusio-Ossola: undici anni prima, costui aveva “liquidato” la mamma di Alfa (accusata di essere una “spia” al servizio dei fascisti) davanti agli occhi della bambina, traumatizzata per tutta la vita da un’esperienza così terribile. Il processo, che fece grande rumore, si concluse con una condanna relativamente mite (cinque anni di reclusione): i tempi non erano molto cambiati sul piano politico, ma Alfa ebbe il vantaggio, se così può dirsi, di essere giudicata da una Corte italiana, diversamente dalla Pasquinelli, nel cui caso si potrebbe discutere sulla legittimità di quella alleata. Nel febbraio 1947 Pola era tuttora soggetta alla sovranità italiana ed il fatto che la Vittima appartenesse alle forze armate di occupazione non elide il quesito in materia di competenza.
Sorsero dubbi sul possesso dell’arma, che Maria asserì di avere acquisito casualmente nelle concitate vicissitudini degli ultimi giorni di guerra, e si parlò di possibili complici. Tra l’altro, ebbe momenti di notorietà la supposizione secondo cui la Pasquinelli avrebbe agito al posto di un concittadino la cui mano sarebbe stata bloccata dalla paura, ma si tratta di ipotesi non confermate in istruttoria né tanto meno durante il dibattito. In effetti, Maria agì da sola ed il suo gesto fu l’unico ad avere trasferito la protesta istriana, giuliana e dalmata, a guerra finita, in una vera e propria “scelta armata”: cosa che conferma la tesi di un Esodo tanto più amaro e doloroso, perché compiuto all’insegna di una triste rassegnazione, peraltro comprensibile in un popolo dalle salde tradizioni cristiane che era stato offeso, tradito, umiliato.
Chiaramente, la storia deve ripudiare le congiunzioni avversative e dubitative. Tuttavia, non è infondato chiedersi cosa avrebbe potuto accadere se Maria, invece di essere disperatamente unica, fosse stata imitata da cento, mille, diecimila patrioti.
Al di là del tardivo “scoop” editoriale che qualcuno possa avere perseguito rispolverando una vicenda sepolta ma non dimenticata, oggi vale la pena di chiederci cosa rimanga di
quel gesto e quale messaggio possa esserne tratto ad uso degli immemori e degli ignari, se non altro attraverso il documento predisposto da Maria, che oggi viene riproposto alla meditazione comune (cfr. allegato) alla stregua di un grido di dolore sempre credibile e pertinente, in una prospettiva storica a cui lo scorrere del tempo conferisce ulteriori motivi di obiettività e di apprezzamento etico non meno che politico.
La Pasquinelli, nei rarissimi contatti informali con l’esterno intercorsi dalla sua liberazione in poi non ha mai voluto indulgere ad espressioni di pentimento spettacolare, pur essendosi fatta premura di pregare per la sua Vittima ed avendo ricevuto in carcere, oltre a quelle di Don Facibeni, anche la visita di un fratello del Gen. De Winton, i cui contenuti rimasero riservati. Il dovuto rispetto nei confronti della “fede ai trionfi avvezza” esime da ogni tentativo di andare più a fondo che equivarrebbe a voler indagare i segreti più intimi della personalità; nondimeno, si può affermare senza tema di smentite che Maria Pasquinelli ha pagato duramente e lungamente per il suo gesto, e in definitiva, per un amore di Patria che si pone oltre i limiti estremi del disinteresse, della gratuità, dell’onestà, dell’altruismo.
Un politologo di chiara fama come Giovanni Sartori, commentando la gloriosa Rivoluzione ungherese del 1956, ne diede una definizione emblematica: sublime follia. Si potrebbe dire lo stesso per Maria Pasquinelli, ma in entrambi i casi il giudizio è da condividere soltanto nell’ottica riduttiva di valutazione delle conseguenze personali, da una parte a carico dei patrioti che si immolarono nell’impari lotta contro i carri armati sovietici, e dall’altra a danno della giovane maestra fiorentina. In realtà, il suo “biglietto” è ben lungi dalla follia, ma lucidamente consapevole nella ferma ribellione a chi aveva fatto strame dei “sensi di giustizia, di umanità e di saggezza politica” consegnando alla Jugoslavia “le terre più sacre d’Italia” e condannando le sue genti “indomabilmente” italiane alle foibe, alla deportazione, o nella migliore delle ipotesi, all’esilio.
Il difensore d’ufficio, Avv. Luigi Giannini, decorato di Medaglia d’Argento al Valor Militare, aveva chiesto il minimo della pena senza farsi soverchie illusioni, ma oggi la rilettura della sua arringa, come quella dell’interrogatorio di Maria, suscita moti di sincera commozione. Nell’Italia consumista e materialista dove si uccide impunemente per i motivi più futili, quello del 10 febbraio 1947 è un “delitto” non certo comparabile con le gesta di assassini da trivio che ignorano il valore unico della vita umana ma neppure con l’indifferenza di chi aveva ceduto alla protervia dell’infoibatore senza la copertura di un apprezzabile “fumus boni juris”.
Proprio per questo si deve concludere affermando che Maria può essere impopolare perché scomoda, ma che diventa a più forte ragione attuale in quanto paladina di una Giustizia ben superiore a quella umana; e soprattutto di valori perenni destinati a vivere sempre nei cuori e nelle menti degli Uomini di buona volontà.
c.m.
(1) – Processo di Maria Pasquinelli: il dramma della Venezia Giulia, Del Bianco Editore, Udine 1947, pagg. 79. L’opuscolo, che si deve all’iniziativa di un non meglio definito “gruppo di donne istriane” firmatarie della premessa, contiene gli Atti dell’interrogatorio di Maria durante il processo, l’arringa del difensore Avv. Giannini e la copia olografa del biglietto che la Pasquinelli aveva scritto per motivare le ragioni del suo gesto.
(2) – Stefano Zecchi, Maria: una storia d’altri tempi, Edizioni Corriere della Sera (Collana Corti di carta), Milano 2008, pagg. 59.
(3) – Rosanna Turcinovich Giuricin, La giustizia secondo Maria: la donna che sparò al generale brigadiere Robert W. De Winton (Collana Civiltà del Risorgimento), Del Bianco Editore, Udine 2009, pagg. 136. Il volume contiene la ristampa integrale dell’opuscolo edito nel 1947, senza gli Atti dell’istruttoria precedente il processo, tuttora sotto vincolo.
Zecchi riporta alla luce la tragedia delle foibe
14 settembre 2010 | Autore: Redazione Unilibro
Mancava nel panorama italiano un romanzo che riuscisse, tra realtà (tanta) e finzione (poca), ad esercitare la memoria
Stefano Zecchi – Quando ci batteva forte il cuore – Mondadori
per rievocare le dolorose e tragiche vicende umane dei profughi dell’Istria. Fino a qualche anno fa, non tanti a dir la verità, quando si parlava di foiba ci si riferiva, sia istituzionalmente che storicamente, alla naturale “dolina carsica”. Niente di più. Completamente e volutamente ignorata una delle pagine più ignobili e tragiche del secolo scorso.
In quei naturali e profondi imbuti finirono massacrati decine di migliaia di innocenti: istriani, dalmati, fascisti, contadini, portalettere, casalinghe, calzolai e, più in generale, cittadini comuni colpevoli di parlare italiano o istroveneto. Colpevoli di essere ritenuti, arbitrariamente, non idonei allo sviluppo della repubblica comunista jugoslava.
Stefano Zecchi, ispirandosi al Cassola de “La ragazza di Bube”, ci documenta la tragedia in un gran bel romanzo che, grazie ad una scrittura asciutta, classica e felicemente riuscita, si candida ad essere uno dei best seller dell’autunno alle porte. Appassionante e coinvolgente, commuove e smobilita la coscienza, anche grazie alla storia intima e segreta del rapporto tra padre e figlio che cresce, matura, si evolve sullo sfondo di una vicenda drammatica
Pola 1945. La storia è crudele con gli italiani dell’Istria, della Dalmazia e di Fiume: se nel mondo si festeggia la pace, qui le loro sofferenze non hanno tregua. Il dramma della gente di Pola sconvolge la famiglia del piccolo Sergio, costretta a subire umiliazioni e soprusi da parte dei nuovi occupanti slavi. La mamma di Sergio, Nives, maestra di scuola elementare, si batte con grande coraggio nella difesa dei confini della patria: colta, autorevole, fiera, raccoglie intorno a sé i propri concittadini che non intendono chinare la testa di fronte alle decisioni dei vincitori. Anche Sergio nutre per la madre una vera ammirazione. Ha sei anni, è cresciuto con lei, ha visto il padre per la prima volta soltanto al suo ritorno dalla guerra. Per lui prova soggezione, quasi diffidenza. Intanto l’annessione dell’Italia orientale alla Jugoslavia travolge l’esistenza degli istriani. Nella famiglia di Sergio è tempo di decisioni gravi. Flavio e Sergio, padre e figlio, impareranno a conoscersi, suggellando un’affettuosa dolcissima alleanza, che li aiuterà, dopo imprevedibili avventure e grandi sofferenze, a costruire una nuova vita insieme. Nelle pagine di questo romanzo, la rigorosa ricostruzione di un periodo terribile e ancora poco conosciuto del Novecento si accompagna a una storia intima, delicata, toccante.
TESI (L’Esodo dimenticato) scrive:
Ottobre 28th, 2010 alle 15:15
L’ESODO DIMENTICATO
“LA GUERRA E’ LA LEZIONE DELLA STORIA CHE I POPOLI NON RICORDANO MAI ABBASTANZA:
Liceo Scientifico Statale “L. Lanfranconi” Genova
Erica Cortese
Studentessa di V Liceo Scientifico
Premessa
Questa ricerca storica ha lo scopo di dimostrare che le foibe sono state certamente una delle cause prioritarie (assieme a tutte le altre persecuzioni, quali annegamenti e fucilazioni, e come l’eccidio di Vergarolla del 18 agosto 1946 in cui l’OZNA fece scoppiare un deposito di bombe in prossimità della spiaggia, causando oltre un centinaio di Vittime) dell’Esodo: mi sono limitata a riportare testimonianze pubblicate, italiane e slave, che dimostrano che gli infoibati non sono fantasmi inventati dai profughi per giustificare un “esodo sconsiderato”, ma che gli incredibili infoibamenti si sono realmente verificati in diverse parti dell’Istria.
Tratterò la storia del calvario e del travaglio della Venezia Giulia durante l’ultima guerra e documenterò le cause che determinarono la fuga di quasi tutta la popolazione italiana: è una storia di sangue, di morti, di fughe, d’infoibamenti barbari e crudelissimi.
“Giudicate Voi, connazionali e stranieri, uomini di studio e d’azione, d’ogni classe e di ogni partito, se questa nostra terra istriana non sia degna di tutto l’amore che le portiamo, non sia in-confondibile nel carattere della sua civiltà; e pertanto non sia un delitto spartirla, soffocarla, sna-turarla”. Questo angoscioso appello di Giani Stuparich è l’eco del dolore di centinaia di migliaia di profughi che vissero e vivono nel silenzio più amaro e dignitoso.
Inoltrarmi in queste vicende e nel voler conoscere il motivo dell’abbandono di terre amatissime vuol essere anche la ricerca delle mie radici per capire perché il mio bisnonno ha abbandonato lavoro, casa, tombe, amicizie, ricordi per andare verso l’ignoto con la sua numerosa famiglia (dieci persone, tra cui un nipotino di pochi mesi e un suocero di 80 anni).
Desidero conoscere questa terra nella sua posizione geologica e geografica e prima di tutto nella sua storia.
e.c.
Esodi da Istria e Dalmazia.
Una storia da non dimenticare
La storia istriana e dalmata è stata oggetto di vicende umane e civili altamente drammatiche, con particolare riguardo a quelle occorse nel Novecento, a danno precipuo della popolazione italiana, largamente maggioritaria soprattutto nei centri urbani, che fu costretta ad un esilio tanto iniquo quanto perpetuo: oggi è doveroso ricordarlo per rendere giustizia a quanti furono costretti a lasciare la propria terra ed i propri beni, e prima ancora, a coloro che fecero sacrificio della vita. Ciò, se non altro, alla luce della Legge 30 marzo 2004 n. 92, che sia pure tardivamente ha istituito il “Giorno del Ricordo” in onore degli Esuli e dei loro Caduti.
Zara
Il primo esodo importante del secolo scorso fu quello dalmata conseguente al trattato di pace del 1919, con cui si era conclusa la prima guerra mondiale: in deroga alle statuizioni del Patto di Londra che nel 1915 aveva preceduto la discesa in campo dell’Italia e con cui l’Intesa aveva garantito l’acquisizione di gran parte della Dalmazia, all’epoca sotto la sovranità dell’Impero austro-ungarico, il nuovo Regno degli Slavi del Sud (Jugoslavia) si vide attribuire tutta la regione adriatica, con la sola eccezione della piccola “enclave” di Zara e di alcune isole (Cherso, Lussino, Lagosta), trasferite all’Italia.
I dalmati, che erano riusciti a convivere con l’amministrazione asburgica sia pure in mezzo a crescenti difficoltà dovute alle discriminazioni compiute da Vienna in favore dell’elemento slavo, visto come suo baluardo difensivo nei confronti dell’irredentismo italiano, furono costretti a prendere la via dell’esilio, rifugiandosi preferibilmente nella stessa Zara, a Fiume ed a Trieste. Nella fattispecie, si parla non a torto di “esodo dimenticato” ma bisogna sottolineare che coinvolse parecchie migliaia di persone, cancellando quasi completamente la presenza italofona nei maggiori centri dalmati, quali Sebenico, Spalato e Traù.
Successivamente, le sorti della seconda guerra mondiale, sfavorevoli all’Asse, ebbero le prime ripercussioni negative proprio a Zara, prima città italiana (di antica fedeltà alla Serenissima Repubblica di Venezia) ad essere conquistata dalle forze partigiane del Maresciallo Tito (novembre 1944). In precedenza, aveva già subito il martirio di reiterati bombardamenti da parte dell’aviazione alleata: alla fine, sarebbero stati oltre cinquanta ed avrebbero ridotto l’aggregato urbano ad un ammasso di rovine, provocando migliaia di Vittime. Zara non aveva particolare rilevanza strategica ed i suoi bombardamenti, come quello di Dresda del 1945 ad opera della RAF, avevano uno scopo terroristico, sollecitato dallo stesso Tito: quello di abbattere il morale dei difensori e della popolazione civile, spingendola all’esodo, che alla resa dei conti avrebbe assunto un carattere assolutamente totalitario.
Non appena entrati in città, i partigiani sottoposero i cittadini italiani che non erano già fuggiti, ad una serie sistematica di violenze, culminate nell’annegamento delle Vittime, gettate in mare con una pietra al collo. Tra quelle più note, si ricordano la famiglia Luxardo, titolare dell’omonima azienda produttrice del famoso maraschino, e la famiglia Ticina, titolare di un’avviata farmacia. Tanti altri zaratini vennero sequestrati dagli invasori e non fecero più ritorno.
Fiume
Dopo Zara e gli altri centri dalmati, Fiume fu la prima città giuliana ad essere sconvolta dai delitti compiuti dai partigiani dopo l’occupazione (maggio 1945) e dalle tante uccisioni indiscriminate. Fra i Caduti più conosciuti si ricordano i Senatori Riccardo Gigante ed Icilio Bacci, ma anche i maggiori esponenti dell’autonomismo, tra cui Nevio Skull e Mario Blasich, assassinato nel proprio letto di invalido per essersi rifiutato di riconoscere che l’Olocausta potesse diventare jugoslava.
Gigante, che era stato Podestà di Fiume, conosciuto per la sua probità e per l’impegno profuso nell’amministrazione cittadina, avrebbe potuto salvarsi, rifugiandosi altrove prima della conquista slava, ma aveva rifiutato di farlo, affermando che il suo dovere era quello di rimanere, tanto più che non doveva rispondere della benché minima colpa. Fu ucciso al pari di tanti altri e gettato in una fossa comune vicino a Castua.
I fiumani, quando appresero che l’Italia di Alcide De Gasperi aveva rinunciato aprioristicamente alla loro difesa, proponendo per confine la vecchia linea Wilson, cha avrebbe salvaguardato la sola Istria occidentale, non ebbero alternativa all’esodo e partirono in massa: chi col permesso di espatrio, chi clandestinamente, chi alla luce dell’opzione consentita dal Trattato di pace del 1947. A fronte di una popolazione nell’ordine delle 60 mila unità, furono almeno 54 mila i cittadini profughi.
Pola
Un destino analogo, sia pure maturato attraverso circostanze diverse, fu quello di Pola. Dopo i quaranta giorni dell’occupazione titina (maggio-giugno 1945), caratterizzati da tragedie analoghe a quelle avutesi altrove, che culminarono nell’affondamento della moto-cisterna “Lina Campanella” con circa 350 prigionieri a bordo (la maggioranza scomparve nel naufragio avvenuto il 21 maggio 1945, mentre i superstiti furono nuovamente arrestati dai partigiani ed avviati ai famigerati campi di detenzione), la città, assieme ad un piccolo circondario, era stata inclusa nella Zona anglo-americana della Venezia Giulia: quanto bastava per suffragare la speranza che col Trattato di pace almeno Pola non sarebbe stata trasferita alla Jugoslavia.
Un anno dopo, quando in luglio si diffuse la notizia che la Conferenza di Parigi aveva deciso in senso contrario, la sorpresa fu pari alla disperazione. Il colpo di grazia alle attese dei cittadini di Pola sopravvenne il 18 agosto 1946 col terribile eccidio di Vergarolla ordito dall’OZNA, la polizia politica di Tito, allo scopo di azzerare le ultime resipiscenze, come autorevoli esponenti del regime, quali Edvard Kardelj e Milovan Gilas avrebbero ammesso in tempi successivi.
Sulla spiaggia di Vergarolla, contigua a Pola, dove erano convenute centinaia di persone per la Giornata della “Pietas Julia”, vennero fatte esplodere 29 mine contenenti nove tonnellate di esplosivo: le Vittime, molte delle quali non poterono essere nemmeno identificate, furono oltre cento, in maggioranza donne e bambini, con un’età media di 26 anni. Nessuno ebbe dubbi sulla matrice dell’atto terroristico, anche se la conferma ufficiale sarebbe giunta mezzo secolo più tardi con l’apertura degli Archivi britannici di Kew Gardens.
Al pari degli altri, anche l’esodo da Pola ebbe carattere plebiscitario, completandosi entro il marzo 1947: partirono 28 mila persone su 30 mila abitanti, in larga maggioranza via mare, con destinazioni articolate fra Venezia, Ancona e Trieste. Carattere distintivo di questo esodo fu la concentrazione in viaggi collettivi, con accoglienze negative tanto più sorprendenti in quanto gli istriani avevano dovuto abbandonare tutto e sbarcavano, al massimo, con qualche povero bagaglio: i comunisti, sobillati dalla loro stampa, non perdonavano a quegli infelici di avere rifiutato il “paradiso di Tito”. A Bologna i “treni dei profughi” non poterono sostare in stazione per qualche assistenza minima perché i ferrovieri rossi avevano minacciato lo sciopero; a Venezia furono oltraggiate persino le spoglie di Nazario Sauro; a Genova, durante la campagna elettorale del 1948 i candidati del Fronte Popolare avrebbero paragonato i “banditi giuliani” a quelli che infestavano la Sicilia.
I campi di raccolta frettolosamente predisposti in Italia furono 109: generalmente privi di ogni conforto sia pure ridotto all’essenziale, non furono estranei alla frequente decisione di emigrare in Paesi lontani.
A fronte di un esodo complessivo che alla fine avrebbe interessato 350 mila persone (compresi i profughi dalmati e quelli dalla Zona “B” del cosiddetto Territorio Libero di Trieste), furono circa un quarto coloro che partirono per l’Estero: più spesso verso Paesi oltremare, dove molti avrebbero affermato la dignità umana e civile della loro scelta con l’impegno nel lavoro e nella vita sociale.
A proposito di Pola, si deve ricordare che il 10 febbraio 1947, mentre a Parigi veniva sottoscritto il Trattato di pace imposto dagli Alleati, la patriota italiana Maria Pasquinelli uccise con tre colpi di pistola il Gen. Robert De Winton, Comandante della piazzaforte locale, per esprimere l’estrema, disperata protesta nei confronti dell’iniqua condanna freddamente pianificata dai vincitori, in ossequio alle pretese della Jugoslavia avallate dall’Unione Sovietica. Maria, che era stata crocerossina sul fronte africano e poi insegnante in Dalmazia dove aveva collaborato alacremente alle onoranze per i Caduti italiani, si era distinta nel Comitato per l’assistenza ai profughi di Pola con grande disponibilità altruistica ed aveva confidato di compiere un gesto di risonanza mondiale, nella consapevolezza di compiere un sacrificio estremo. In effetti, due mesi più tardi, il processo celebrato a Trieste davanti ad una Corte Alleata si concluse con la condanna a morte, poi commutata in quella dell’ergastolo.
Maria Pasquinelli, affidata alla giustizia italiana per l’espiazione della pena, sarebbe stata graziata nel 1964, dopo 17 anni di detenzione. Oggi, ospite di un pensionato, vive a Bergamo.
Foibe
Il “Giorno del Ricordo” (fissato dalla Legge istitutiva nel 10 febbraio di ogni anno) intende promuovere una doverosa memoria dei sacrifici che furono affrontati dagli Esuli per affermare la loro opzione di civiltà e di fede cristiana, o meglio di vita; ma nello stesso tempo, vuole attirare la sensibile attenzione di tutti sulla tragedia delle foibe, le profonde cavità carsiche in cui le Vittime della pulizia etnica titina trovarono morte allucinante. In effetti, l’infoibamento fu il mezzo più frequente di uccisione, spesso dopo sevizie e torture indicibili, ma ebbe alternative ricorrenti in fucilazioni, lapidazioni, e come si è detto, negli annegamenti.
In Istria esistono circa 1700 foibe, almeno cinquanta delle quali furono utilizzate, dal 1943 in poi, per portare a termine il perverso disegno. Vi scomparvero in gran numero gli istriani, ma anche i triestini ed i goriziani, che nella primavera del 1945 furono costretti a subire, al pari degli altri, i quaranta giorni di occupazione partigiana. E’ stato impossibile calcolare la cifra esatta dei Caduti, ma le stime più attendibili, prima fra tutte quella di Luigi Papo, la collocano nell’ordine dei 20 mila.
Si deve comunque aggiungere che Istria e Dalmazia hanno dovuto farsi carico delle conseguenze di gran lunga maggiori derivanti dalla guerra perduta: non solo per un’amputazione territoriale che ha sacrificato il tre per cento del territorio nazionale, o per la perdita dei beni e delle stesse tombe avite dislocate in circa 300 cimiteri, ma prima ancora, per l’incidenza delle Vittime sul totale della popolazione residente, risultata doppia rispetto a quella italiana complessiva.
c.m.
IL CARATTERE ITALIANO DELLA VENEZIA GIULIA E DELLA DALMAZIA
Valentino Quintana
Vittorio Vetrano di San Mauro
QuattroVenti – Urbino – 2009
Bellissimo ed interessante libro
pag. 374 – Appendice n. 6: una lettera di Timeus
………. Sentimenti di un idealista, d’un animo nobile, rari nella squallida mollezza d’oggi, ma che vaticiniamo rifioriti in un glorioso futuro….
Maria Pasquinelli e Gaetano Bresci
Nel 1900 l’esule anarchico Gaetano Bresci fu artefice del regicidio in cui cadde, a Monza, Umberto I di Savoia. Nel 1947, a Pola, la grande patriota Maria Pasquinelli colpì a morte il Gen. De Winton, quale simbolo di coloro che avevano sottoscritto il sacrificio di Venezia Giulia e Dalmazia ignorando il dramma dei loro popoli.
Ci si chiede perché a Gaetano Bresci siano stati innalzati monumenti celebrativi, come quello di Carrara, mentre sulla memoria di Maria Pasquinelli è sceso un silenzio praticamente totale, interrotto solo nel 2008, dopo 60 anni, da un opuscolo di Stefano Zecchi.
Bresci aveva voluto gridare al mondo la protesta anarchica nei confronti di una politica dissennata che aveva trovato massima espressione nei colpi di cannone fatti sparare da Bava Beccarsi sul popolo milanese, responsabile di nulla chiedere se non un pezzo di pane.
Maria, dal canto suo, si era battuta onestamente e lealmente per la difesa di terre italiane che venivano cedute a chi non aveva titoli per diventarne padrone e utilizzava le foibe e le persecuzioni come strumento di pulizia etnica da cui sarebbe derivato il grande Esodo dei 350 mila.
Onorare Bresci, per non dire di Nino Bixio stragista di Bronte, o dei generali garibaldini e piemontesi che nel Mezzogiorno si macchiarono di analoghe repressioni in stile nazista, può avere un “fumus” di credibilità; ma allora, bisogna onorare la Pasquinelli, eroina ben più nobile e meritevole.
STRAGE DI VERGAROLLA
CUORE DEGLI ESULI
65 anni dopo la strage di Vergarolla:
una grande stele in memoria dei Caduti scoperta nella Zona Sacra di San Giusto
Il 18 agosto 1946 a Vergarolla, nei pressi di Pola, fu perpetrato un delitto contro l’umanità: la più grande strage – non dovuta a cause naturali – mai compiuta in Italia (all’epoca, il capoluogo istriano apparteneva all’Italia che lo avrebbe ceduto alla Jugoslavia col trattato del successivo 10 febbraio).
Si legge spesso, anche in internet, che il triste primato apparterrebbe alla bomba di Bologna del 2 agosto 1980, capace di uccidere 85 persone, ma si dimentica che a Vergarolla ci furono oltre cento Vittime (il numero esatto non è noto, perché molte furono letteralmente dilaniate dall’esplosione di dieci tonnellate di tritolo contenute in trenta mine, ma una testimonianza assai attendibile come quella di Padre Flaminio Rocchi lo ha definito in 109).
La matrice terroristica dell’evento fu subito chiara, in specie per i cittadini di Pola, la cui scelta per l’Esodo venne consolidata dall’attentato, tanto che nel giro di pochi mesi coloro che lasciarono i propri focolari, le proprie attività e le tombe di famiglia, ovvero gli affetti più cari, furono pari al 92 per cento della popolazione. A conti fatti, restarono circa tremila persone: il 15 settembre 1947, data del passaggio di sovranità, Pola era una città deserta.
Alcuni anni or sono, l’apertura degli Archivi del Foreign Office (l’amministrazione di Pola era in mano britannica) ha fugato gli ultimi dubbi, peraltro puramente formali, con tanto di nome e cognome degli attentatori, appartenenti all’OZNA, la polizia politica del regime jugoslavo.
In questa ottica, la scopertura di una grande stele eretta in memoria delle Vittime nella Zona Sacra di San Giusto, che ha avuto luogo il 18 agosto, ricorrendo il sessantacinquesimo anniversario della strage, acquista un significato che non è soltanto simbolico. Infatti, il monumento intende affidare alla pietà ed alla preghiera dei posteri il ricordo delle Vittime innocenti, fra cui tante donne e tanti bambini (l’età media è stata calcolata in 26 anni), ma nello stesso tempo costituire un monito a percorrere universalmente “le vie della Giustizia e dell’Amore” secondo l’auspicio di Mons. Antonio Santin, l’eroico Vescovo di Trieste durante gli anni bui, ben ricordato nell’allocuzione che il Gen. Riccardo Basile, Presidente della Federazione Grigioverde e della Famiglia di Pola in Esilio, ha pronunciato nella circostanza, ricordando il fatto storico, le sue matrici, e soprattutto le conseguenze, tradottesi in un Esodo davvero plebiscitario.
Sono intervenuti, assieme ai Congiunti delle Vittime, il Comune di Trieste, con il Gonfalone cittadino decorato di Medaglia d’Oro al Valor Militare, cui sono stati resi gli onori di prammatica; l’Amministrazione Provinciale, le Associazioni d’Arma presenti nella Grigioverde, l’Unione degli Istriani con le Famiglie aderenti (tutte con i propri Labari) e con grande solidarietà anche i Vessilli dell’Associazione Arditi d’Italia, della Decima Flottiglia Mas e dei Combattenti della RSI. Per questa tragedia si sono trovati tutti uniti sul Sacro Piazzale. Grande segnale di grandezza d’Animo.
Particolarmente cospicua è stata la presenza dell’ANA, con la Sezione di Trieste ed il Gruppo di Grado e Fossalon in rappresentanza di tanti Esuli; tra gli altri anche il Parroco Don Edoardo Gasperini, testimone miracolosamente scampato alla strage di Vergarolla insieme a tutti i Suoi giovani.
Prima della benedizione, impartita da Don Gherbaz, esule da Lussino, la signora Muiesan Gaspari, Esule da Pirano e figlia di un Martire delle foibe, ha dato lettura dei Nomi delle Vittime identificate, riportati sulla stele con l’indicazione delle rispettive età.
In apertura, il Presidente Basile aveva letto il messaggio augurale fatto pervenire dal Vescovo Mons. Crepaldi, impossibilitato ad intervenire perché impegnato all’estero assieme al Santo Padre Benedetto XVI; e quello inviato dal Prof. Daniele Ria, Sindaco di Tuglie (Lecce), città che ha manifestato costanti attenzioni nei confronti del dramma istriano, fiumano e dalmata, non solo nella celebrazione del “Giorno del Ricordo”, tanto da avere inviato a Trieste in rappresentanza del Comune due giovani concittadine, Francesca Aloisi e Gloria Caputo, che hanno posato sul Monumento la corona votiva di rito.
Assai toccante è stato il momento in cui il vessillo tricolore posto sul grande cippo in Pietra del Carso è stato rimosso da due Esuli eredi dei Caduti, seguito dalle note del Silenzio fuori ordinanza.
Non è un caso che la stele sia stata collocata accanto a quella che ricorda i Volontari giuliani, istriani e dalmati decorati di Medaglia d’Oro al Valor Militare, tra cui coloro che, come Fabio Filzi e Nazario Sauro, lasciarono la vita sulle forche dell’Austria perché avevano un solo partito: l’Italia. Al pari dei 16.500 infoibati di cui alla ricerca di Luigi Papo, e dei 350 mila Esuli che testimoniarono con la diaspora in tutto il mondo l’adesione ai valori “della Giustizia e dell’Amore” invocati dal grande Presule in odore di santità.