Quegli scout ragazzini diventati grandi sul Vajont
Quegli scout ragazzini diventati grandi sul Vajont
I “rover” adolescenti ricomposero salme e diedero conforto ai parenti Cinquant’anni dopo il disastro, sono tornati a Longarone per ricordare
LONGARONE. Molti di loro non avevano neanche vent’anni, quando scelsero di partire per offrire il loro aiuto nei giorni successivi al disastro del Vajont. A loro toccò uno dei compiti più strazianti: il recupero delle salme, la loro ricomposizione e deposizione prima nelle casse, poi nel cimitero di Fortogna. E soprattutto gli venne chiesto di stare vicino ai partenti delle vittime, per aiutarli nel riconoscimento dei loro cari, e offrire parole di conforto, se mai se ne fossero trovate. Erano scout, provenienti da mezza Italia, la gran parte dal Veneto. Erano rover: in quella fascia d’età nella quale lo scoutismo educa al senso profondo del servizio. E ad essere sempre pronti.
Sabato alcuni di loro si sono ritrovati a Longarone, in occasione del convegno «Preparati a servire» organizzato dal Centro Studi e documentazione scout “Don Ugo De Lucchi” di Treviso in occasione del 50° anniversario del Vajont. E per sentire le loro testimonianze sono arrivati in tanti: erano oltre 700 gli scout che hanno gremito il padiglione messo a disposizione dalla Longarone Fiere per l’evento. Provenivano praticamente da ogni regione del centro-nord. E la gran parte di loro erano giovani, più o meno della stessa età di quei rover che 50 anni fa salirono fino a Longarone. Il Centro Studi si preparava da tempo a questo incontro: negli ultimi due anni hanno raccolto testimonianze, documentazioni e immagini dalle quali è nato anche un libro. Perché lo scoutismo, insieme agli Alpini e ai Vigili del Fuoco, era l’unico gruppo organizzato in grado di mobilitarsi velocemente e intervenire. Lo ricorda bene la medaglia di bronzo al valor civile che venne conferita al movimento il 2 giugno del ’64, proprio per il servizio di quei ragazzi al Vajont. «Ero partito da Milano con un furgone carico di aiuti – racconta Gianni Garotta -. Solo quando sono arrivato a Belluno ho scoperto che stavo trasportando calce viva. Mi hanno scortato immediatamente a Longarone, e la vista della valle è stata uno shock. Poi a Fortogna, in quel campo di mais che sarebbe diventato il cimitero, c’erano centinaia di bare allineate. Ho prestato lì il mio servizio, aiutando i superstiti disperati a riconoscere i loro cari».
«Dall’Umbria siamo saliti in 19 – ricorda Enrico Biagioli, da Spoleto – avevamo tra i 16 e i 23 anni. Le nostre famiglie non potevano immaginare, nessuno immaginava quello che avremmo trovato. Quando siamo arrivati a Fortogna ci hanno detto che potevamo scegliere se distribuire viveri o ricomporre salme. Non ci ho dormito la notte, ma alla fine avevo deciso: non avevo fatto 500 km per tagliare panini, e così sono andato al cimitero».
Con lui c’era Bernardino Ragni: «Dovevamo ricomporre corpi di persone martoriate, mutilate, nude. Un incarico duro per un ragazzo di 17 anni come me. Lavoravamo 12 ore al giorno, ma non ricordo la fatica; non c’era orrore. C’era invece pietas: una sincera partecipazione al dolore dei superstiti. E intanto mi chiedevo come fosse stato possibile. Anni dopo ho lasciato lo scoutismo, ma il seme del servizio si era sviluppato in me: è diventato il mio lavoro di educatore, come docente universitario, e è nel mio impegno in difesa dell’ambiente».
La gran parte degli scout in quelle settimane prestava servizio al cimitero di Cadola, e nella perlustrazione del greto del Piave. «La prima che trovammo fu una bambina – ricorda Lino Bianchin di Treviso -: era coperta di fango: la portammo in cimitero per lavarla. C’erano più di cento salme lì. Trovammo anche il corpo di don Bortolo Larese, nudo come tutti gli altri. Lo rivestimmo con i paramenti sacri che ci portarono i superstiti».
Michele Giacomel