Natale in Etiopia per cinquanta scout. Giovedi la partenza
Cinquanta scout, 35 ragazzi e 15 capi, partiranno giovedì mattina da Riccione per un’esperienza in Etiopia, nella missione di padre Bernardo Coccia.
L’idea è nata un anno fa durante una riunione del clan Uragano del gruppo Riccione 1. E’ poi maturata come momenti di incontro, riflessione, autofinanziamento. Nei giorni scorsi il “mandato”, durante la messa nella parrocchia di San Martino.
La partenza è prevista per le 8 di giovedì da piazza dell’Unità. In Etiopia staranno fino al 4 gennaio, vivendo in missione sia il Natale che il Capodanno. Non è la prima volta da Padre Bernardo per gli scout riccionesi; è del 2006 infatti il primo viaggio missionario.
Uno dei rover, Elia racconta così la preparazione:
“Come nasce un sogno?
Certi giorni ti svegli, apri gli occhi e sai già bene come andrà avanti la nostra giornata: colazione, scuola, università, studio. Altri giorni, invece, tra un biscotto e l’altro nella tazza fumante del latte, ci vedi incastrato un sogno, una speranza e un viaggio da intraprendere.
Se qualcuno ci chiedesse come è nato il sogno dell’Africa, in maniera simile, non sapremmo rispondergli: erano anni che se ne stava lì, in attesa che qualcuno lo tirasse fuori.
Sono anni che, tra di noi, si parla di andare in Africa: ma ogni volta sembrava che non fosse il momento giusto. “Non siamo ancora pronti”, “forse il prossimo anno, se ci prepareremo in tempo”.
Mi han raccontato che andava avanti così da parecchio tempo.
Perché, poi, l’Africa? L’Africa ha bisogno di noi più di altri luoghi?
No.
L’Africa non ha bisogno di noi: siamo noi ad aver bisogno dell’Africa.
E questo è stato fin da subito chiaro quando, in una serata di neve del 2012, il Clan Uragano del gruppo Riccione 1 ha deciso di mettersi in cammino per l’Africa: si va laggiù non per cambiare il mondo; certo, ci vai portando moltissimo materiale, ci vai con le maniche della camicia azzurra arrotolate…
Ma il mio salvadanaio dice bene, quando ci leggo sopra:
“Se sei venuto qui per aiutarmi, stai sprecando il tuo tempo.
Ma se sei venuto perché la tua liberazione è legata alla mia, allora lavoriamo insieme (una donna aborigena)”
La seconda tappa del nostro sogno è stata la decisione a freddo: dopo un settimana, nella solita riunione, era arrivato il momento di scegliere l’Africa anche con la mente.
Perché Africa voleva dire mesi e mesi di stretto autofinanziamento, voleva dire chiedere alle famiglie, in un periodo che ben sappiamo poco adatto, uno sforzo economico fuori dal comune. Molti erano i dubbi, molti di noi, all’inizio, non si sentivano pronti…. molti non si sentono pronti tutt’ora.
Poi la vita di clan che prosegue: ragazzi che escono dal clan, con la promessa che avrebbero partecipato anche loro; tanto, tantissimo autofinanziamento.
C’erano le volte in cui, nonostante i cartelloni, facevi fatica a ricordarti perché stavi vendendo torte, perché animando compleanni. C’erano momenti in cui l’Africa sembrava ancora più lontana di quanto non fosse: certo, era il momento di scegliere dove andare, in quale esperienza prestare il nostro servizio.
Ma le cose da fare, fin da subito, erano talmente tante, in una normale estate della nostra riviera romagnola, che il “Progetto Etiopia” ci ha messo un po’ ad entrare nei nostri cuori.
Lavoravamo per tornare in Etiopia, dove il nostro clan era già stato nel 2006, lavoravamo per raccogliere i fondi, con lo scopo di tornare da Padre Bernardo, missionario riminese.
Eppure mancava qualcosa: e quel qualcosa ci è giunta con il nuovo anno.
Il noviziato, composto dai ragazzi più giovani, è entrato definitivamente in clan e, insieme, abbiamo cominciato a lavorare veramente.
Se qualcuno di noi, a Settembre, quando il più delle decisioni era già stato preso e i biglietti già comprati, pensava che la nostra fatica era finita lì si sbagliava di grosso: certo, l’autofinanziamento oramai si era ridotto al minimo, ma con il nuovo anno che cominciava dovevamo iniziare a scoprire un nuovo tipo di fatica: il lavoro su noi stessi.
Tanti, tanti ci hanno detto che non puoi andare in Africa se non sei preparato, se non hai lavorato su te stesso, su quali sono le tue paure per il viaggio, le tue speranze, cosa ti aspetti di vedere.
Africa vuol dire stravolgimento, Africa vuol dire essere finalmente pronti a cambiare prospettiva: Africa vuol dire soffrire.
Siamo pronti a questo?
Cominciammo a vedere le foto, a pensare “di cosa ho paura, io?”, e a renderci conto che la vera distanza tra noi e loro non si copre con l’aereo, ma con una mente lucida e un cuore aperto.
Chiamiamolo pure disincantamento: sì, perché al ritorno sarà come svegliarsi da un sogno che ci ha accompagnati da quando abbiamo emesso il primo vagito.
E all’inizio fa paura: come fa paura pensare che, magari, quando ci troveremo laggiù non riusciremo a vivere l’Africa come andrebbe vissuta, fa paura credere che, forse, non ci cambierà abbastanza questo viaggio, paura di chiuderci a riccio, di non saper raccontare, capire, vedere, sentire sulla pelle.
Paura di non viverla abbastanza.
Paura di viverla troppo, e di starci male.
Alla fine, e in verità, è stato quello il momento in cui abbiamo sentito entrare dentro di noi il progetto: quando i capi ci hanno detto “scrivete ciò che vi fa paura”; tutti i progetti che avevamo fatto fino a quel momento sono stati messi in discussione da una inesorabile certezza:
davvero sto andando laggiù.
E adesso?
Adesso mancano 5 giorni alla partenza.
Da quel giorno a Santa Maria in Silvis abbiamo scoperto l’Etiopia, scoperto dove andremo: Natura, Storia, Società… ma soprattutto abbiamo scoperto con quale animo andremo giù, il perché andiamo in Africa.
Su questo ci ha aiutato anche un gruppo che laggiù, da Padre Bernardo, ci va ogni anno: il “gruppo Africa” di Bellaria (Grazie ragazzi!!).
Ci hanno mostrato i luoghi, e i volti: ma ci hanno anche detto chiaro e tondo che i video non basteranno mai a spiegare tutto. Manca l’odore, manca essere lì.
Ancora tante sono le domande che metteremo nello zaino.
Anche i nostri genitori si sono buttati in questa avventura: mio padre, dopo aver visto un video, ha detto “mi metti nello zaino?”, mia madre, per quanto preoccupata e triste perché non saremo con lei per le feste, soffre di una invidia profonda.
“Tu perché vai in Africa”? Questo mi è stato chiesto.
Alla fine non siamo stati noi, in quel giorno di neve di un anno fa, a scegliere l’Africa:
è stata lei che, come una madre da cui siamo stati a lungo lontani, ci ha chiamato.
E ora ho paura, tensione, desiderio, speranza, curiosità, impazienza, entusiasmo e coraggio di raggiungerla“.
Noi diciamo: buona strada ragazzi!